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Quando la pellicola non è superficiale

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Quando la pellicola non è superficiale
Non so se Henry Cartier Bresson possa effettivamente essere considerato il più grande fotografo di sempre, è sicuramente tra i 10 più importanti, ma dobbiamo tener nel debito conto il fatto che la sua lunga carriera ha attraversato il periodo d’oro della fotografia, quello durante il quale le riviste illustrate si vendevano parecchio e facevano opinione, oltre che costume. Oggi la foto di Bob Capa che ritrae il miliziano della Guerra Civile Spagnola nel momento in cui viene colpito a morte, sarebbe dimenticata nel giro di qualche mese.

Ma il punto non è questo: la mostra a Palazzo Roverella è bellissima e ci ho incontrato (mi ha fatto immenso piacere) una scolaresca delle superiori, ragazzi educati e curiosi, che all’uscita si sono messi a discutere con l’insegnante sul valore dell’immagine e sulle implicazioni sociali legate alla sua diffusione. Stavano tutti in cerchio a discutere, solo due erano distratti dallo schermo del cellulare.

Cartier Bresson è un maestro, non si discute, e le sue fotografie ci regalano un ritratto del nostro Paese e della sua rapida trasformazione che ci aiuta a cogliere la vitalità di persone, architetture e paesaggi, tutto rappresentato attraverso un’imperfezione che è solo apparente. Le inquadrature lontane dalle regole auree, la profondità di campo di volta in volta ridotta o enfatizzate, le leggere sfocature, il contrasto tra i bianchi schiacciati e i neri profondi, liquidi, sono dettagli voluti (accettati, non programmati a priori, si tratta di istantanee) che usano tutti i registri espressivi del medium fotografico.

Ma forse l’elemento più importante, quello che ci dovrebbe far riflettere, è il tipo di rapporto che si crea tra quel genere d’immagine e lo spettatore. Le foto di Cartier Bresson sono poetiche, chiedono uno sforzo, ci invitano a leggere tra le righe, a impegnarci per capire il significato profondo nascosto sotto la carta emulsionata e che si rivela solo se ci fermiamo un attimo a pensare.

Forse oggi Cartier Bresson farebbe fatica a lavorare per il mondo della moda: al di là del progresso tecnologico che consente di intervenire sull’immagine in post-produzione modificando radicalmente lo scatto del fotografo che in questo modo ha “perso importanza”, oggi le immagini pubblicitarie non devono lasciare spazio all’interpretazione, i guru del marketing temono che una parte del messaggio possa venire fraintesa e, orrore, influire negativamente sulle vendite. Tutto deve essere prosaico, esplicito, elementare, banale.

L’ultimo fotografo pubblicitario della “vecchia scuola” è stato Oliviero Toscani, le sue foto per Benetton hanno fatto storia. Guardando le foto esposte alla mostra di Palazzo Roverella non dovremmo limitarci a dire “belle”, dovremmo piuttosto riflettere su quanto siamo cambiati e sulle ragioni che ci hanno spinto a diventare fruitori bulimici di milioni di immagini di qualità scadente, che scorrono nella nostra vita senza lasciare traccia, scivolano inutili e patinate sullo schermo superficiale del nostro cervello ma non hanno la chiave per penetrare nella memoria.

Guardare una foto di quella mostra, ma l’esempio si potrebbe estendere alle immagini di Dorothea Lange, di Vivian Mayer o di Andreas Feininger, è come leggere le pagine di un libro. Osservare le attuali pubblicità dei profumi che giganteggiano nei cartelloni pubblicitari disseminati nelle città, fatte le debite proporzioni sono immagini che vengono pagate più di quelle di Cartier Bresson, è come guardare la TV