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Sic transit gloria mundi

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Sic transit gloria mundi
Le recenti vicende della galassia Fiat-Stellantis sono purtroppo la desinenza di un processo che ha radici lontane e che non si spiegherebbe senza analizzare il passato. Nel secolo scorso il gruppo Fiat aveva consolidato una posizione egemone nel Paese, che si rifletteva sulle scelte economiche e addirittura sulla pianificazione infrastrutturale della penisola, ma, almeno fino agli anni ‘70, in cambio aveva saputo creare ricchezza e occupazione, esportava auto, autocarri e mezzi agricoli e aveva addirittura costituito in vario modo importanti realtà delocalizzate nell’Est Europa, in India e in Sudamerica.

Tutto questo era il frutto dell’attività di Valletta, di Giacosa, di personaggi certamente controversi, ma indubbiamente molto competenti e che a loro modo amavano l’automobile. Le cose sono cambiate radicalmente quando la leadership dell’azienda gradualmente passò nelle mani di Gianni Agnelli, l’Avvocato, un capitalista flamboyant e carismatico capace di affascinare platee molto diverse, cui vanno tuttavia addebitate grandi responsabilità per il declino industriale della maggiore azienda italiana. Il fratello Umberto, che probabilmente a a causa della personalità strabordante di Gianni non riuscì mai a esprimere compiutamente le sue doti, avrebbe voluto mantenere l’impostazione produttivistica dell’azienda, secondo lo schema che la vedeva protagonista nelle commesse militari, privilegiata sotto il profilo fiscale e legislativo e fruitrice di sovvenzioni pubbliche nei momenti difficili, in cambio di una politica espansiva che garantiva alti tassi di occupazione e la realizzazione di impianti diretti o collegati all’indotto anche nel mezzogiorno.

Gianni al contrario pensava che la finanza potesse rappresentare la chiave per il futuro industriale del gruppo, ridimensionando l’auto e relegando il settore dei mezzi pesanti (una cenerentola nella sua visione, che in realtà godeva di ottima salute e sanava con gli utili di settore parte delle perdite dell’auto) ad un ruolo secondario, diversificando le attività. Uno degli imperdonabili errori strategici dell’Avvocato fu la scelta di preferire Romiti a Ghidella quando i due entrarono in conflitto. Nonostante gli straordinari successi che Vittorio Ghidella aveva costruito, trasformando un’azienda in crisi profonda nel primo produttore europeo di veicoli (500.000 unità/anno), grazie al successo commerciale e sportivo di modelli come Uno, Tipo, Croma, Y10, Thema e Delta, Gianni Agnelli decise di puntare su Romiti, un personaggio ambiguo che forse lo aveva illuso di saper gestire politica e sindacati.

Gli anni seguenti hanno dimostrato quanto “culo di pietra” (soprannome ufficiale di Cesare Romiti) sia stato in grado di pilotare il colosso torinese verso il successo. Da quel momento il declino di Fiat auto fu inarrestabile, salvo la parentesi Marchionne durante la quale il trend si invertì rapidamente grazie alla vera e propria rivoluzione attuata dal manager italo-canadese, cui tuttavia gli Agnelli-Elkann affidarono l’azienda perché la consideravano praticamente fallita, visto che (potete verificarlo) nel suo momento più buio in borsa valeva meno di Tiscali!

La tragica scomparsa di Marchionne lasciò di fatto il timone della Fiat nuovamente in mano agli eredi, manifestamente ancora meno capaci dei predecessori, che a fronte delle difficoltà e delle complesse problematiche degli scenari globali, pensarono bene di svendere, capitalizzare quanto possibile e vivere di rendita. Per loro gli effetti sull’occupazione e sull’economia del paese sono “danni collaterali”. Eppure solo qualche anno prima Sergio Marchionne era stato capace di acquisire (e pagare) Chrysler (insieme ai marchi Dodge e Jeep), ponendo un importantissimo tassello di una strategia industriale brillante e destinata al successo. Gianni Agnelli passerà alla storia per i flirt e per l’orologio sul polsino emulato da migliaia di imbecilli, Lapo Elkann per flirt di altro genere e per l’abbigliamento coatto-chic.

Nel ‘46 i Savoia lasciarono Torino, ma evidentemente gli italiani senza un re non sanno stare ed elessero l’Avvocato a nuovo monarca: in entrambi i casi si è trattato di dinastie da operetta, gente di nobile ha davvero poco. Personalmente mi pongo una domanda: di quell’enorme massa di denaro che gli eredi dell’Avvocato hanno intascato dal vampiro Tavares, quale sarebbe la quota che onestamente spetterebbe ai cittadini italiani? Agli operai che con i turni alle presse hanno creato gli utili che loro hanno ingoiato voracemente? E come in un brutto romanzo d’appendice ora si assiste alla miserabile querelle tra gli eredi di quell’enorme patrimonio, che si disputano come cani randagi una fortuna che in buona parte non apparterrebbe loro