L’affaire Dreyfus (seconda parte)
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- Notizia pubblicata il 21 luglio 2023
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- Scritto da Liana Isipato | Letture
Abbiamo visto nella puntata precedente come - a dispetto del sottotitolo “Tutti gli uomini del caso Dreyfus” - l’origine della vicenda sia partita da una donna: la signora che facendo le pulizie all’ambasciata tedesca aveva raccolto un biglietto ridotto in pezzi, ricomposto e usato per incolpare Dreyfus, bersaglio del clima di odio crescente contro gli ebrei. Un giornalista interpretò il momento e inventò il nemico perfetto agli occhi dell’opinione pubblica. Si tratta di Édouard Adolphe Drumont, che da tempo sguazzava piacevolmente nei panphlet antisemiti diffusi dall’organo italiano dei gesuiti: Civiltà Cattolica.
Finanziato dallo scrittore Alphonse Daudet, nel 1886 Drumont pubblica un’opera imponente: La France Juive, che punta il dito sugli ebrei come corpo separato dal resto della nazione, un corpo parassita che vuole corrompere e distruggere dall’interno la società cristiana. Il successo editoriale del libro è senza precedenti nella storia francese. Forte del successo Drumont fonda un giornale antisemita, La Libre Parole, e fa dell’antisemitismo la sua ragione di vita. Sarà proprio La Libre Parole a stampare in prima pagina la notizia “Alto tradimento. Arresto dell’ufficiale ebreo A. Dreyfus”. Dreyfus non aveva confessato e non esisteva nessuna prova certa della sua colpevolezza, ma Drumont era riuscito, con le parole giuste, a costruire verità false su di lui. ‘Verità’ sbandierate nelle edizioni del mattino, del giorno e della sera, tanto da convincere i francesi.
Entra in scena a questo punto Mathieu, il fratello di Alfred, chiamato urgentemente a Parigi dalla cognata Lucie. Esterrefatto, e conoscendo bene l’onestà del fratello, sarà da questo momento il suo più strenuo difensore, appoggiato dall’avvocato Edgar Demange.
Dispacci cifrati, telegrammi, codici segreti, si susseguono a raffica, incrociando nientemeno che Champollion, il primo a trovare la chiave per decifrare la scrittura geroglifica. La stessa tecnica usata dall’egittologo viene infatti presa a prestito dal capo del Bureau; e un telegramma, che nella versione corretta scagiona Dreyfus, viene stravolto nel contenuto finendo come prova dell’infamia del capitano.
Mentre Monet e i suoi amici contemplano la chiusura delle ninfee, a 23 chilometri da lì, il governatore militare di Parigi, al termine di una partita di caccia, confida al presidente della Repubblica Casimir-Périer che Dreyfus era innocente e che il ministro della guerra Mercier, accusandolo, si era cacciato nei guai. Però… “La pressione aveva portato Mercier a uscire allo scoperto. Lo aveva costretto a ritoccare la realtà. Ma in quel momento l’errore lo rese un eroe. Il ministro della guerra era diventato improvvisamente l’uomo degli antisemiti. E a loro consegnò la preda che desideravano. Nel farlo alterò la verità, servì direttamente i giornali, ingannò l’opinione pubblica, influenzò i giudici e anticipò, imponendola, una sentenza prima ancora del processo”.
Questo viene fissato il 19 dicembre. Ai familiari e all’avvocato di Dreyfus il quadro appare chiaro: le prove sono inconsistenti; inoltre sperano molto nel consiglio di guerra: sette ufficiali onesti non condanneranno mai un collega sulla base di un pezzo di carta.
Il processo avviene a porte chiuse. Il ministero ha in mano solo un’insignificante bolla di sapone, che però - incredibilmente - non scoppia. Dreyfus, ritenuto all’unanimità colpevole, viene condannato alla degradazione e alla deportazione “in un recinto fortificato”. A vita.
La cerimonia della degradazione umilierà barbaramente Dreyfus sotto gli occhi della città intera. “Morte al traditore”!, “Morte agli ebrei”!, esplode la folla. “Era il frutto di un seme velenoso, quello sparso da Drumont. E incarnava un solo desiderio: condannare gli ebrei nella persona di uno di loro. Lo straziante episodio era durato una dozzina di minuti. L’Affaire sarebbe finito solo dodici anni dopo”.
Il prigioniero, imbarcato su una scialuppa a vapore, viene trasportato all’ Île de Ré, centro di raccolta verso la destinazione all’ Île du Diable, nella Guyana francese.
Nella parte quattordicesima Trellini fa uno dei suoi scarti, e ci conduce alla nascita del mercato dell’arte moderna, per l’intuizione di Paul Durand-Ruel. Il mercante inizia vendendo i primi lavori di Monet e, tramite lui, conosce Pissarro e altri artisti, che abitano quasi tutti nel quartiere di Batignolles. Dalle loro discussioni e scambi di idee nasce un nuovo linguaggio pittorico. Un linguaggio pieno di luce e impregnato di modernità. Ma il mercante non basta: “Bisognava cambiare il gusto delle persone. E per riuscirci servivano intermediari influenti. Il più persuasivo di questi si chiamava Émile Zola”.
Seguiamo a questo punto la vita del piccolo Émile, rimasto orfano di padre a sette anni, in Provenza. La madre, rimasta in rovina, lotta per assicurare al figlio una borsa di studio che gli viene accordata e gli permette di mettersi in mostra come studente modello al Collège Bourbon. Lì incontra l’amico di una vita, Paul Cézanne, da cui si separa per un periodo, quando con la madre si trasferisce a Parigi. Abitano nel quartiere latino, a pochi passi da dove aveva vissuto fino a pochi mesi prima Auguste Comte, il filosofo positivista. L’aria positivista che si sta sostituendo al mondo delle idee vecchie e superate dell’ancien régime condizionerà per sempre il modo di pensare e di scrivere di Zola.
Cézanne, nel frattempo, abbandona gli studi di diritto per dedicarsi completamente alla pittura, trasferendosi a Parigi. I due “inseparabili” sono di nuovo insieme.
Il mondo sta diventando più piccolo: la rete ferroviaria si diffonde, la gente viaggia e apre le menti. Il treno offre il tempo di leggere durante il viaggio. La crescita della ferrovia e della stampa procedono di pari passo. Louis Hachette installa punti vendita di stampa e libri nelle stazioni: allo scoppio del caso Dreyfus avrà una rete di milleduecento librerie in tutte le stazioni. E qui trova il suo posto Zola. Entrato in Hachette, la casa editrice più importante dell’epoca, Zola fa un salto di qualità, tenendo una rubrica su un quotidiano, per approdare poi alla più nota collana di libri tascabili, la “Bibliothèque Charpentier”. L’editore e sua moglie, amanti dell’arte, tengono a casa un salotto letterario dove Zola diventerà intimo di Monet, Degas, Renoir e molti altri. In quei salotti, nella fase più calda dell’Affaire si parla di quell’uomo spedito in un’isola sperduta dell’oceano.
Il romanzo alterna a questo punto due filoni: il racconto delle misure di detenzione di Dreyfus e lo sviluppo dei dubbi sulla sua colpevolezza. Il tutto, con abbondanza di particolari, elenchi dettagliati, cartine, disegni.
Dreyfus, trattato come una bestia, giunto sull’isola “minuscolo inferno cui bastavano due guardiani: l’oceano e la giungla” viene privato di quasi tutti i bagagli. Scarsissimo il cibo, che deve consumare senza piatti, servendosi di carta o di vecchi pezzi di latta. Malnutrizione e mancanza di igiene gli causano febbri, coliche, disturbi cardiaci, vomito e diarrea. Addirittura, viene fissato al letto con catene collegate ad anelli che gli chiudono le caviglie, lasciandolo insonne e sanguinante. “Denutrito, malandato, febbricitante, insonne, sfiancato, controllato, maltrattato, torturato e isolato, Dreyfus aveva toccato il punto più basso…Fu nell’abisso di quella disperazione che decise di combattere. E da quel fondo rinacque”.
In Francia, gli articoli di Zola e di un altro giornalista, Bernard Lazare, in difesa degli ebrei instillano nuovi pensieri che circolano soprattutto nelle case delle salonnières, donne affascinanti, critiche e informate, che accolgono politici, letterati, artisti. Ma sarà l’arrivo della lettera di una presunta spia, davanti agli occhi del colonnello Picquart, a dimostrare l’innocenza di Dreyfus. Picquart, che ricordava la calligrafia del bordereau, mette a confronto un suo facsimile con la lettera appena ricevuta: le calligrafie non sono somiglianti; sono identiche! Ma quando il colonnello chiede un confronto con lo stato maggiore gli viene ordinato di tacere. Ammettere lo sbaglio avrebbe significato intaccare il prestigio dello stato maggiore e quindi la difesa nazionale. Da un lato dunque c’è Picquart, solo, dall’altro l’esercito intero.
Picquart viene spedito all’estero con l’incarico di funzioni ispettive e con un’indennità speciale di mille franchi. Il perché è evidente. Sul golfo di Hammamet ha un infortunio, cadendo da cavallo. Fulminato dal pensiero che, se fosse morto, il segreto di Dreyfus sarebbe morto con lui, prende carta e penna, scrivendo tutto in una lettera, posta in busta sigillata, da consegnare al presidente della repubblica, in caso di proprio decesso. Affida il plico all’amico Louis Leblois.
In quei giorni anche un agente finanziario, Jacques de Castro, ha occasione di mettere a confronto il facsimile del bordereau (Mathieu Dreyfus l’aveva fatto stampare su manifesti disseminati per Parigi, affiancando la vera calligrafia di Alfred) con quattro lettere di un suo ex cliente, un ufficiale francese. Manda a chiamare Mathieu e insieme, emozionati, passano in rassegna le scritture. Sono identiche. E sono firmate da uno sconosciuto:
Esterházi
In effetti sono stata ancora lunga, ma ho raccontato il triplo di pagine dell’altra volta. Ora siamo a pagina 478. Lo so, potevo scrivere una recensione convenzionale di una facciata, ma trovo il libro così affascinante che ho voluto renderne partecipi i miei pochi lettori, a puntate…
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