L'arte di ascoltare: ventuno visioni fotografiche e una sola domanda di fondo, intervista a Tobia Donà
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In occasione dell'uscita del secondo volume di "Quello che i fotografi non dicono", un nuovo capitolo del progetto editoriale che dà voce alla fotografia, abbiamo l'opportunità di parlare con il suo autore, Tobia Donà. Architetto, docente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, Tobia Donà nutre da sempre un interesse per fotografia come forma di pensiero visivo. Con questo secondo volume, prosegue un percorso di ascolto e confronto che mette in luce le sfumature più intime e spesso trascurate del “fare fotografie”, creando uno spazio di riflessione condivisa tra autori, immagini e lettori.
Il libro raccoglie ventuno nuovi dialoghi con autori e autrici della scena fotografica contemporanea, dando spazio a voci affermate e sperimentali. Attraverso interviste, ritratti e riflessioni, l'opera esplora non solo la pratica fotografica, ma il pensiero che la genera: dubbi, intuizioni, pause, crisi, desideri. Le ventuno visioni diverse presenti nel volume sono unite da un'urgenza: quella di restituire senso all'atto del fotografare.
Tra gli autori e le autrici intervistati troviamo Duane Michals, Oliviero Toscani, Liu Bolin, George Tatge, Paolo Gioli, Patrizia Galia; accanto a loro, nuovi nomi come Annalisa Medici, Riccardo Bandiera, Letizia Bucci, Cristina Burns, buiopasto, Caterina Lodo, Francesco Zanin, Ilaria Di Biagio, Elena Pez, Massimo Pelagagge, Rino Alessandrini, Tommaso Mori, Stéphane PIA, Emanuela Fersini, e la set designer Chiara Guadagnini. Un ricco panorama di voci per comprendere la fotografia dall'interno. Ora, per approfondire questo nuovo capitolo, chiediamo a Tobia Donà di raccontarci di più.
Cominciamo dall'inizio: com'è nato questo secondo volume di Quello che i fotografi non dicono?
Direi da un ascolto. Il primo volume mi aveva già mostrato quanto bisogno ci fosse di raccontare la fotografia al di là dell'immagine. Non parlo solo di storie "dietro lo scatto", ma di ciò che lo precede e lo supera: intuizioni, esitazioni, visioni parziali, fragilità. Il secondo volume nasce dal desiderio di proseguire quel dialogo, aprendo lo sguardo ad altre ventuno voci, ciascuna con un modo diverso di abitare la fotografia e il proprio tempo.
Hai scelto fotografi molto diversi tra loro: emergenti e affermati, italiani e internazionali, poetici e provocatori. Come li hai messi in relazione?
Non cercavo un criterio unico. Mi interessava, piuttosto, far emergere la varietà. Ho scelto autori che avessero una visione forte, che non si limitassero alla superficie dell'immagine, ma che la attraversassero con uno sguardo personale, talvolta anche contraddittorio. Quello che unisce queste storie non è un genere fotografico o un'estetica comune, ma la necessità di pensare per immagini, di interrogarsi continuamente sul perché si fotografa, e cosa si cerca davvero dentro uno scatto.
Nel libro si parla di crisi creative, di fallimenti, di ossessioni. Perché hai voluto mostrare proprio questo lato del lavoro?
Perché è quello che raramente viene raccontato. La fotografia contemporanea è piena di perfezione esibita, di immagini curate e ripulite. Ma dietro ogni immagine significativa c'è spesso una lotta: contro il tempo, contro i propri limiti, contro il rumore del mondo. Ho voluto dare spazio a quei momenti in cui la macchina fotografica diventa quasi una scusa per cercare altro — un contatto, una rivelazione, un modo per restare umani.
Hai definito il libro "un'opera che ascolta, che osserva, che accoglie". Pensi che ci sia qualcosa di profondamente femminile in questo approccio?
Forse sì, se pensiamo al femminile non come a un'identità, ma come a una modalità di sguardo. Non autoritaria, non chiusa. Io non intervisto per sapere, ma per aprire un varco. Alcuni fotografi mi hanno portato nella loro infanzia, altri nelle loro paure, altri ancora nella solitudine dei loro set. Mi hanno dato fiducia. E in cambio, ho cercato di restituire quella complessità senza semplificare, senza ridurre a uno stile o a un'etichetta.
Il libro non include immagini stampate, ma rimanda tramite QR code alle gallerie online. È una scelta editoriale o un segnale di qualcosa di più ampio?
Entrambe le cose. È una scelta pratica, certo, ma anche una riflessione su come la fotografia oggi viva in una dimensione fluida, ibrida. La carta è ancora importante, ma non basta più. Il fotografo contemporaneo deve sapersi muovere in spazi diversi, dalla galleria al feed, dallo schermo al libro. Il QR code non è un ripiego: è un ponte. Ti porta altrove, ti chiede un gesto attivo. Come il libro stesso.
Se dovessi riassumere in una sola frase il senso di Quello che i fotografi non dicono, quale sarebbe?
Forse questa: ogni immagine nasce da un pensiero, ma solo chi è disposto a mettersi in discussione riesce a trasformarlo in visione.