Il saggio di Aldo Cazzullo su Benito Mussolini
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Mussolini capobanda

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Mussolini capobanda

Il senso del libro di Aldo Cazzullo, Mussolini il capobanda, sta tutto nel sottotitolo: perché dovremmo vergognarci del fascismo

Così l’incipit: Cent’anni fa, in questi stessi giorni (la prima stampa è del 2022), la nostra patria cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidati da un uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l’aveva messo al mondo.

Ecco allora il ritratto di un uomo violento fin da bambino. Rissoso, andava a scuola col coltello in tasca e, da ragazzo, aveva sempre con sé un pugno di ferro e un coltello a serramanico, che usò per colpire una delle sue prime amanti, Giulia Fontanesi.

Era violento con le donne, che disprezzava e di cui “disponeva a suo piacere”. Il fidanzamento con Rachele avvenne con la pistola in pugno, minacciando i genitori di lei che, sebbene contrari per il carattere violento del futuro genero, non osarono correre il rischio.

Ma la storia che rivela davvero l’uomo è quella del figlio, Benito Albino, e di sua madre, Ida Dalser, rimossi come un ostacolo e fatti internare in manicomio dopo che Ida, donna di talento negli affari, aveva sostenuto economicamente il giornale da lui fondato, Il Popolo d’Italia. Mussolini punta a donne che possono sostenerlo nella sua ascesa sociale.

 

Con la violenza Mussolini prende anche il potere, a prezzo di centinaia di vittime, e lo mantiene con la forza. La prima azione politica del fascismo si fa a colpi di pistola, il 15 aprile 1919, all’attacco di un corteo di anarchici a Milano, e all’assalto della redazione dell’Avanti!

Si spara e si usano olio di ricino, manganelli e, tra le squadre mantovane di Carlo Buttafuochi, perfino stoccafissi che frantumano nasi e mascelle. Quando Buttafuochi fu eletto alla Camera lo chiamarono l’onorevole Baccalà.

Mussolini è il vero organizzatore delle squadre. Si occupa anche della logistica. E dell’aspetto più importante: le armi. Il ras marchigiano Raffaello Riccardi va a incontrarlo di persona: “Prese un foglio di carta, scrisse poche parole e mi disse d’andare all’indirizzo che aveva segnato sulla busta… Andai all’indirizzo indicatomi, esibii la lettera, ebbi le armi. Due grosse valigie piene di rivoltelle e bombe a mano”.

La marcia su Roma risulta così il frutto di tre anni di violenze, oltre che dell’inadeguatezza dell’Italia liberale. Dopo l’incarico del re Mussolini fa il governo in poche ore. Al momento di votare la fiducia alla Camera, su 429 presenti, solo 116 votano no e 7 si astengono. Da notare che i fascisti a Montecitorio sono appena 35: la calata di braghe dei deputati è impressionante. Pensano che Mussolini sia un fenomeno di passaggio…Filippo Tommaso Marinetti firma un messaggio di plauso, insieme con gli artisti Funi, Carrà, Sironi.

Mario Sironi, uno dei più grandi pittori del Novecento, resterà fascista sino alla fine, sino a Salò. Alla Liberazione tenta di fuggire in Svizzera, da solo in auto con il suo cane, ma viene fermato da un gruppo di partigiani comandati da Gianni Rodari, il poeta della nostra infanzia.

Leggendo il nome sul documento, chiede: “Siete voi il pittore delle periferie?”. Sironi risponde: “Sono io”. Rodari, che non vuole far uccidere un artista che ama, gli dice di andare via in fretta. Ma Sironi ribatte che al prossimo posto di blocco ci saranno partigiani ignari dell’arte moderna, che lo metteranno al muro. Allora Rodari firma con il suo nome un lasciapassare intestato a Sironi Mario; e gli salva la vita.

 

Divenuti padroni d’Italia, i fascisti agiscono, dal primo giorno del regime, nell’unico modo che conoscono: violenza e sangue. Per le vie di Roma si scatena la caccia al “rosso”: due socialisti uccisi, olio di ricino a molti e roghi alla Casa del Popolo e in periferia. A Milano viene distrutta la redazione dell’Avanti! E a Torino, la città operaia detestata da Mussolini, le camicie nere si scatenano in una violenza cieca, guidata da Piero Brandimarte: circoli operai presi d’assalto e Camera del Lavoro incendiata.

Lì, verrà più volte picchiato selvaggiamente Piero Gobetti, il giovane che ha fondato una piccola rivista, La Rivoluzione liberale, in cui scrivono i migliori intellettuali torinesi. Cazzullo riporta un significativo aneddoto: Lui è andato a bussare alla porta del più importante, il titolare della cattedra di Scienza delle Finanze, Luigi Einaudi, per chiedergli un articolo, specificando che non ha i soldi per pagarlo. Un barone universitario di oggi lo guarderebbe come un matto, Einaudi ringrazia, scrive, consegna.

Gobetti morirà a 24 anni per le conseguenze delle bastonature subite. L’ultimo libro scritto prima di morire è «Matteotti», dedicato al simbolo di un’Italia che non si è piegata, Giacomo Matteotti. Figlio di una terra tra le più povere, il Polesine, socialista da sempre, viene eletto deputato e denuncia apertamente i crimini dei fascisti, come nessuno ha avuto il coraggio di raccontare nei dettagli in Parlamento. Gli sarà fatale il discorso del 30 maggio 1924 in cui alla Camera denuncia le violenze e i brogli che hanno rese irregolari le elezioni. Sappiamo com’è andata: il pomeriggio del 10 giugno cinque assassini lo aspettano sotto casa, lo rapiscono e lo uccidono, nascondendone il corpo. Uno è sicuramente Amerigo Dùmini (accento sulla u), un galantuomo che ama presentarsi così: “Piacere, Dùmini, nove omicidi”. Velia ha capito. Si fa ricevere da Mussolini e gli dice: “Eccellenza, sono venuta a chiedere la salma di mio marito per vestirlo e seppellirlo”. Si racconta che il Duce sia rimasto impietrito.

 

E qui, la svolta del regime con l’ultimo discorso al Parlamento. I prossimi, Mussolini li farà dal balcone di Piazza Venezia. Gli storici disquisiscono molto sul significato della svolta. Si obietta che quello costruito da Mussolini non fu uno stato totalitario, ma uno stato autoritario. Come se una manganellata autoritaria facesse meno male di una manganellata totalitaria.

Cazzullo prosegue con l’elenco delle vittime illustri: Don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli. Eppure, prosegue l’autore, non è vero che tutti gli italiani siano stati fascisti. Certo, molti lo furono con maggiore o minor convinzione, ma è difficile misurare l’adesione a una dittatura quando manca un’altra possibilità di scelta, che non siano manganellate, olio di ricino, arresti, processi, condanne.

 

Capitolo sei: vita agra sotto il Duce. La divisa diventa un’ossessione: tutto, dagli stivali al cappello, è nero, il colore della morte. Abolita la stretta di mano, saluto femmineo; il saluto dev’essere a braccio teso. Abolito pure il “lei”, obbligatorio passare al “voi”. L’ironia popolare non si fa attendere: “Vorrà dire che anziché Galilei diremo Galivoi”. Una battuta che il Duce, molto irritato, trova cretina. E ci sarebbe da ridere, se non trovassimo nelle pagine seguenti una serie di tragedie: dal trattamento discriminatorio contro le donne, che non possono esercitare certi lavori (presidi, insegnanti di lettere) e che, nelle aziende private, come negli impieghi pubblici, dal 1938 potranno trovare impiego solo per il 10%, contro il 90% per gli uomini. I salari calano e alla fine della Seconda guerra mondiale i risparmi degli italiani saranno carta straccia. Continua la feroce repressione con l’altissima percentuale di condanne da parte del Tribunale speciale: 81%, tra cui 31 condanne a morte. L’argomento dei difensori di Mussolini è noto: Hitler e Stalin ne incarcerarono e ne uccisero un numero incomparabilmente superiore. Ed è vero. Non ci è di nessun imbarazzo riconoscerlo. Ma a noi è toccato il fascismo.   Si continua con le stragi fasciste in Libia, Etiopia, Spagna: autentici crimini contro l’umanità, ben documentati, come i 40.000 morti nei campi di concentramento in Cirenaica, organizzati da Badoglio e Graziani. Dopo la Seconda guerra mondiale Graziani scaricherà le colpe del massacro sui sottoposti e sul Duce, ormai morto.

E’ interessante sapere che il sindaco di Affile (Frosinone), Ercole Viri di Fratelli d’Italia, gli ha dedicato un mausoleo nel proprio paese, definendolo ‘un grande condottiero’. Nonostante le proteste, il mausoleo è sempre lì.

Si prosegue con le leggi razziali, meglio razziste, per niente blande rispetto alle tedesche, come Cazzullo dimostra. Nasce il giornale La Difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi. Segretario di redazione è Giorgio Almirante. Tra le vittime delle leggi razziste c’è Margherita Sarfatti, perseguitata pur essendo la donna che ha amato e insegnato tutto a Mussolini, costruendo il mito del Duce anche all’estero. Si arriva alla guerra criminale contro il popolo italiano, perché non solo aggredire un altro popolo è un crimine, ma anche mandare in guerra i propri soldati senza armi ed equipaggiamenti adeguati è un crimine. Pur avendo parlato per un ventennio di guerra, Mussolini non l’ha preparata. Cazzullo ricorda in particolare la battaglia di Nikolajewka, dove morirono cinquemila soldati italiani; i crimini in Jugoslavia e tanto altro, fino alla caduta di Mussolini nella notte tra il 24 e 25 luglio 1943. Si passa, come sappiamo, alle atrocità di Salò, con i torturatori del nazifascismo.

C’è un equivoco da sfatare. I “ragazzi di Salò”, come vengono chiamati con un’espressione indulgente, sono ora considerati “i vinti”. E lo furono, dopo il 25 aprile. Ma prima avevano il coltello dalla parte del manico. E lo usarono. Salò si regge sulla formidabile e spietata macchina da guerra nazista. E ci aggiunge del suo, grazie ad alcuni terrificanti figuri. Torturatori efferati, come quelli della banda di Pietro Koch o Mario Carità. La caccia agli ebrei raggiunge ora il culmine. Nota la razzia delle SS a Roma, dove dei 1259 ebrei spediti ad Auschwitz solo 16 faranno ritorno. Pochi ricordano invece la notte del 6 dicembre 1943, quando 163 ebrei veneziani vengono arrestati dalla polizia italiana e da volontari fascisti. Le loro case, saccheggiate. Ed è ormai accertato che i 4210 ebrei deportati dopo l’ordine di polizia numero 5 siano stati arrestati quasi tutti dalle autorità italiane, mettendoci “uno zelo veramente incredibile, fatto al tempo stesso di fanatismo, di sete di violenza, di rapacità”.

Cazzullo ci parla poi della Resistenza, in modo antiretorico, e della fine ingloriosa del Duce, prima di portarci alle ultime pagine, quelle del nostro tempo, che ci costringono a interrogarci soprattutto sul senso della nostra memoria, sul perché oggi in Italia l’antifascismo è sentimento di una minoranza, ampia ma pur sempre minoranza. Certo non sono molti -ma neppure pochi- coloro che il Duce lo rimpiangono e lo difendono. Ma sono moltissimi quelli che rifiutano di condannarlo. Ci siamo inventati una storia autoassolutoria, a nostra misura, ma è tempo di raccontare, e dimostrare, che Mussolini era diverso dall’idea che ci siamo fatti e che se la Costituzione, nell’articolo 3, capovolge il fascismo per cui i cittadini non erano tutti uguali, questo capovolgimento lo dobbiamo certo alla Quinta Armata che ha liberato l’Italia, e pure ai russi che hanno fermato i nazisti. Ma lo dobbiamo anche ai tanti italiani che hanno detto no al nazifascismo, che hanno tenuto duro nel ventennio, che hanno resistito nei venti mesi di occupazione tedesca. Talora al prezzo della vita. Persone di cui non si parla in TV e nei social.

 

È un volume lungo, denso, interessante, ricco di tante altre cose che non ho raccontato. Si legge bene, Cazzullo ci sa fare con le parole, ci mette passione e documenta ciò che dice.