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Recensione: Il figlio di Forrest Gump di Angelo Ferracuti

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Recensione: Il figlio di Forrest Gump di Angelo Ferracuti

Dopo Non ci resta che l’amore, dedicato al suo ‘maestro gentile’ Mario Dondero, Angelo Ferracuti torna per parlarci di un altro Mario, suo padre, il Forrest Gump del titolo, che inizia con le parole Il figlio di…, perché c’è tanto figlio nella narrazione che sviluppa i momenti di un rapporto tormentato e divenuto, solo negli anni maturi, o meglio fuori tempo massimo, quasi pacificato attraverso il magico filtro della letteratura.

Questo libro sembra essere un destino: “Devi scrivere di me” dice Mario, al figlio poco prima di morire, e lui in fondo lo sa già, aveva sempre saputo che l’avrebbe fatto. Lo scrive ora, a pochi anni di distanza, quando quel momento di verità, che nella vita di ciascuno di noi è la morte, gli restituisce la consapevolezza, espressa con le parole più tenere, che nessuno si fa da solo e che le durezze, il sarcasmo, le sfide del padre erano quelle di un uomo orfano dai sei anni, con una madre anaffettiva, e che aveva attraversato la guerra, la povertà, privo di studi, cresciuto da solo, sfidando il mondo. Di più non poteva fare.

La storia parte da una foto, l’unica, del nonno, morto suicida. Un fantasma che aleggia negli anni piccoli dell’autore e che, nel trascorrere di un tempo difficile, con momenti di vita rabbiosi, sembra il motivo scatenante della scelta di Mario Ferracuti di mettersi di punto in bianco a correre e, del figlio, di cominciare, due anni dopo, a scrivere: Dovevamo ognuno dei due fare i conti con quella storia. Ho sempre pensato che la sua morte alla fin fine è stata il motivo per il quale noialtri abbiamo fallito, lui come padre e io come figlio, il motivo per cui lui è morto senza sapere niente di me e io di lui, la cosa peggiore che poteva capitarci, il motivo per cui ora sto scrivendo.”

Lontani come scelta di campo politico, simili però nell’essere fuori dagli schemi: il padre che infrange la regola dell’ipocrisia serpeggiante nella piccola città, al quale “la verità scappava di bocca come una lucertola”, e il figlio ribelle, a cui la stessa piccola città va stretta, che partecipa alle manifestazioni di piazza ma sentendosi quasi fuori dal coro, un cane sciolto. Anni lontani, pieni di sogni, illusioni, di una disfatta politica ed esistenziale, capaci però di dar voce a una generazione. Tutto finito. Eppure erano gli anni delle conquiste civili: C’era stata la legge sul divorzio, quella sull’aborto, lo Statuto dei lavoratori, la 180, la riforma sanitaria, eravamo sempre in movimento, ogni cosa che facevamo aveva una valenza politica, abbiamo vissuto un periodo irripetibile.

E’ la cifra stilistica di Ferracuti, molto riconoscibile, quella di riportare sempre al sociale, al mondo di fuori, i pensieri e la vita intima. Legato in parte della sua produzione a reportage narrativi, anche nei suoi memoir, come La metà del cielo e Il figlio di Forrest Gump, Ferracuti intreccia le vicende personali con quelle collettive, insistendo sullo scontro tra il sogno di una riparazione sociale e la chiusura di quella ottusa parte del mondo che nega ogni cambiamento.

Le vicende, le emozioni, le fasi della vita, in questo, che è anche un romanzo di formazione, ci vengono restituite dall’autore attraverso un percorso intimo nel quale la memoria alterna gli spazi temporali, trasportandoci dai ricordi d’infanzia ai recenti reportage negli amati paesi del Nord, la Norvegia su tutti. Proprio nella narrazione di questi viaggi avviene quasi un dialogo muto, a tratti straziante, col padre, offertoci attraverso paragrafi in corsivo.

Vediamo l’autore aggirarsi nella casa disabitata, dopo la morte della madre, e osservare, nella “stanza del campione”, i trofei, medaglie dorate e coppe, intitolati alla “Pietra umana” o al “Piede”, come l’aveva battezzato una rivista sportiva.

Perché Mario Ferracuti era divenuto veramente una leggenda…Il Leone delle Marche ne aveva compiute di imprese! Inizia partecipando alle ‘marcelonghe’, in voga negli anni ’70-’80, passando presto dalle corse di paese a quelle di resistenza, come la Firenze-Faenza del 1975, dove arriva dopo 17 ore, correndo anche di notte. Partecipa alle maratone più prestigiose, da New York a Londra, da Mosca a Jerba. Affronta, spingendosi a prove sempre più azzardate, le supermaratone a tappe, e così, nella cerchia degli amici, Angelo comincia a essere chiamato “il figlio di Forrest Gump”, il che non gli dispiace.

I conflitti, a volte molto duri, tra padre e figlio, vanno in scena soprattutto durante i pasti e, alzandosi al più presto da tavola, la madre si defila. Lei, bella come Audrey Hepburn, cerca di intervenire minimizzando le cose, strappando momenti al suo lavoro di camiciaia, china ore e ore sulla Singer: “E’ molto ribelle, ma gli passerà” dice di notte, stesi sul letto, al marito: “non è un cattivo ragazzo, sta solo passando un brutto periodo”.

A un certo punto l’autore, citando Freud, scrive: “La storia dell’uomo è la storia della sua repressione. Forse è proprio per un senso di liberazione, allora, che il maratoneta, ormai conosciuto e affermato, corre sempre più, continua a correre per essere un uomo forte e puro, una leggenda vivente. E una volta iniziate, le cose, non c’è verso di fermarle. Così anche lo scrivere, fatto di lunghi periodi di concentrazione, mette alla prova la tenuta mentale dello scrittore, come del maratoneta,nel tempo sospeso fra la partenza e il traguardo, nella determinazione di ricominciare ogni volta con lo stesso desiderio di prima anche dopo un clamoroso fiasco, oppure dopo un ritiro.”

Dopo la morte dei genitori, i vecchi diventiamo noi; c’è uno scoramento che deriva dalla consapevolezza di non aver più tempo per sistemare le cose. Angelo sente di essere più vicino all’irrequietezza del padre, scopre in sé aspetti comuni, prima insospettati e ci offre l’immagine finale di un padre atteso invano tutta una vita, ma che si staglia davanti al lettore come una forza della natura, una specie di super eroe dai muscoli scolpiti e dai brillanti occhi celesti, l’uomo d’acciaio che non si fermava mai.