Accidia e demoni del deserto
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- Quante emozioni
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- Notizia pubblicata il 12 giugno 2024
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- Scritto da Daniele Franzoso
La nostra emozione di oggi deriva dal greco akedia, ovvero “senza cura”.
Alcune tra le prime descrizioni dell’accidia ci sono pervenute dalle esperienze dei monaci cristiani che conducevano dei ritiri ascetici in medio-oriente.
Una credenza di quel periodo riguardava un cosiddetto demone del meridiano, in quanto faceva visita agli sfortunati monaci intorno a mezzogiorno, provocando una crisi di breve durata. San Nilo, nella sua opera De octo spiritibus malitiae, descrive il comportamento tipico di chi era colpito da questo male:
“Se legge, si interrompe inquieto, e un minuto dopo scivola nel sonno; si sfrega la faccia con le mani, distende le dita e, tolti gli occhi dal libro, li fissa alla parete; di nuovo li rimette sul libro, va avanti per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge”
Oggi lo descriveremmo come un attacco di pigrizia e svogliatezza, un transitorio vissuto depressivo. È molto probabile che fosse dovuto alle condizioni in cui questi monaci vivevano: privazioni fisiche, periodi di intensa concentrazione e solitudine e, primo fra tutti, il tremendo calore del deserto. Forse non è un caso che il “demone” colpisse proprio durante le ore più calde del giorno.
Ad ogni modo, il monaco Giovanni Cassiano inserì l’accidia tra gli otto peccati capitali; nell’opera De instituis coenobiorum affermava che l’accidia “gli insinua dentro un orrore del luogo in cui si trova e uno schifo dei fratelli che convivono con lui, che ora gli sembrano negligenti e grossolani”
È noto che alcuni monaci caduti preda dell’accidia iniziassero a denigrare la loro vita al monastero, tentando di convincere quanta più gente possibile ad abbandonare quel luogo e a fuggire con loro verso le delizie della città più vicina. In casi estremi, i poveri sfortunati si abbandonavano alla mercé delle sabbie, incapaci di sopportare ulteriormente questo tormento.
L’accidia era quindi un pericolo non solo per la pratica religiosa, ma anche per la loro stessa esistenza.
Lasciandoci alle spalle gli asceti desertici e i loro demoni, l’accidia come peccato ha continuato ad essere conosciuta anche nel medioevo. La ritroviamo, ad esempio, nelle opere di Dante Alighieri. Nel quinto girone dell’Inferno, egli pone questi peccatori assieme agli iracondi, in quanto l’accidia era considerata un difetto derivante dall’ira (caratterizzato però da un’irremovibile tristezza, come si evince dal testo):
“Fitti nel limo, dicono: - tristi fummo
Nell’aer dolce che dal sol s’allegra
Portando dentro accidioso fummo;
or ci rattristiam nella belletta negra.”
[Canto VII 121-124)
Qualche secolo dopo l’accidia subisce un ribaltamento di significato, diventando addirittura uno stile di vita. È il caso dei dandy di cui Charles Baudelaire era un esponente, i quali vivevano all’insegna del lusso (specialmente dell’arte e dell’eleganza) e di una ostentata noncuranza verso tutto il resto. La malinconia era rinominata spleen, ovvero la milza dalla quale deriva la bile nera che secondo le teorie sugli umori caratterizzava questo stato d’animo (la stessa bile in cui annegano i peccatori descritti da Dante).
In una lettera alla madre, Baudelaire scrisse: “quel che sento è uno scoraggiamento immenso, una sensazione di isolamento insopportabile […]. Un’assenza totale di desideri, un’impossibilità a trovare uno svago qualsiasi.”
Oggigiorno il termine accidia è caduto in disuso, lasciando il posto ai modelli clinici sulla depressione.
Ciononostante, ogni tanto ricompare per creare un parallelo con il passato, ad esempio per descrivere l’affaticamento da pandemia che abbiamo vissuto qualche anno fa. Forse quell’esperienza ci ha reso simili ai monaci del deserto, intenti a mantenere la retta via nella desolazione più totale (nel nostro caso metaforica, relazionale, istituzionale)
Letture consigliate
Divina Commedia: Inferno – Dante Alighieri