79 anni fa l'eccidio di Villamarzana
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79 anni fa l'eccidio di Villamarzana

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79 anni fa l'eccidio di Villamarzana

Pubblichiamo integralmente il discorso tenuto ieri da Diego Crivellari nel corso delle celebrazioni per il settantanovesimo anniversario dell'eccidio di Villamarzana



Oggi ricordiamo la più grave tra le stragi compiute in Polesine durante la guerra; quasi ottant’anni sono passati da quei tragici momenti, quasi ottant’anni da quando il nome di Villamarzana si è dolorosamente – e per sempre – inciso nella storia del nostro paese, nella storia della Resistenza e della lotta contro la dittatura e contro l’occupazione straniera. Pagine gloriose, eroiche, ma anche contrassegnate da violenze e avvenimenti che segnano in profondità la storia dei territori.

 

La strage di Villamarzana è uno di questi eventi, un evento che testimonia la violenza e l’ingiustizia della guerra e del fascismo e la cui memoria non può essere cancellata. Ripercorriamo quanto viene riportato nell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, progetto che ha permesso di catalogare e analizzare “tutte le stragi e le uccisioni singole di civili e partigiani uccisi al di fuori dello scontro armato, commesse da reparti tedeschi e della Repubblica Sociale Italiana in Italia dopo l’8 settembre 1943, a partire dalle prime uccisioni nel Meridione fino alle stragi della ritirata eseguite in Piemonte, Lombardia, Veneto e Trentino Alto Adige nei giorni successivi alla liberazione”: nella notte tra il 13 e il 14 ottobre 1944 scatta il rastrellamento da parte dei repubblichini. L’epicentro è il paese di Castelguglielmo. Nelle operazioni perderanno la vita undici persone. I prigionieri verranno tradotti nelle carceri di Rovigo. La mattina successiva, domenica 15 ottobre, intorno a mezzogiorno vengono fatti salire sui camion e portati fino a Villamarzana, mentre il plotone di esecuzione pranza nell’osteria di Primo Munari. Sul muro della casetta del barbiere, dove poco dopo verranno uccise 41 persone, viene scritto “Primo esempio”. I prigionieri escono sei alla volta con le mani legate e sono fucilati alla schiena: i parenti sono costretti a guardare dalla finestra del municipio. Uno dei condannati, che si era nascosto in un armadio, viene ripreso, chiede di poter morire sulla tomba della sorella e viene accontentato. L’eccidio ancora non è terminato, perché altri tre arrestati sono in attesa del processo. Primo Munari sarà fucilato nel cortile della Caserma Silvestri il 21 ottobre 1944.

 

Che cosa rimane di questa storia oggi? E in cosa consiste il nostro dovere della memoria? Viviamo in una democrazia solida, che è nata dal sacrificio di chi ha combattuto per la libertà e che ha saputo resistere a sfide pesanti, nel corso dei decenni, come quella del terrorismo. Eppure, come dimostrano anche gli eventi di queste ore, viviamo in un mondo pericoloso, segnato da conflitti vecchi e nuovi, e in una società liquida che – incerta o spaesata di fronte a questi stessi eventi – talvolta sembra mettere in discussione le sue stesse radici, sembra dimenticare il suo passato o farne un uso selettivo per fini strumentali. Qualche studioso si spinge fino ad affermare che stiamo andando verso un tempo senza storia, verso un modello di società interamente appiattita sul presente e, di conseguenza, totalmente sganciata dal proprio passato. Per altri versi, il passato ritorna invece come ossessione, continua ad essere terreno di contesa, di una contesa politica e ideologica che resta sottotraccia, portando – da destra a sinistra – non ad una volontà condivisa di conoscere e comprendere, bensì al trionfo dell’uso pubblico della storia, al manicheismo, al prevalere di visioni unilaterali. Dove sta la verità, allora? Voglio ricordare a tale proposito la riflessione di un grande intellettuale contemporaneo, Edward Said, che così apre il suo saggio Cultura e imperialismo, recentemente tradotto in italiano:

 

“Le più comuni strategie per interpretare il presente sono quelle che si richiamano al passato. Alla base di tali richiami non c’è solo la divergenza di opinioni su ciò che nel passato è accaduto e in che cosa il passato sia realmente consistito, ma l’incertezza circa il fatto che esso sia veramente tale, finito e concluso, o se piuttosto non continui nell’oggi, seppure in forme diverse. Questo problema stimola ogni genere di discussione: sulle influenze, sulle colpe e sui giudizi, sulle realtà presenti e sulle priorità future”.

 

Una democrazia matura non può temere il passato e non può avere paura di fare i conti con la propria storia, anche con le sue pagine più vergognose. Se il fascismo storico è morto nel 1945, la coscienza civile di questo nostro paese deve riconoscere e contrastare attivamente fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo che restano diffusi nella nostra società e che, in più di qualche caso, continuano a richiamarsi ad un triste passato. Deve contrastare unitariamente i richiami al neofascismo. Ne abbiamo avuto qualche assaggio con l’assalto alla sede della Cgil di due anni fa, per esempio. Ecco perché non possiamo rimanere inerti di fronte ai tentativi di riscrivere la storia che ancora oggi vengono avanti. Spesso in modo subdolo. Spesso chiamando in causa incongruamente il concetto di una “pacificazione” obnubilante e indifferenziata. Pacificazione come parificazione di scelte e responsabilità rispetto al passato e alla storia. Si cerca e si è cercato, dagli anni Ottanta e Novanta in poi, specialmente, di sostituire l’antifascismo con una sorta di revisionismo coatto, quasi un revisionismo di stato, potremmo dire, almeno in certe fasi, che svalorizzando il contributo della Resistenza e dell’antifascismo si è proposto di riscrivere la storia del nostro paese, ad uso e consumo della contingenza politica, e delle convenienze di parte, senza comprendere che solo sulla base di un antifascismo maturo e consapevole, patrimonio della nostra nazione, nemico di ogni totalitarismo, poteva e può essere finalmente possibile edificare un moderno patriottismo costituzionale. Si sono tralasciati e dimenticati i migliori contributi della nostra cultura che, pur nella diversità delle posizioni, da Bobbio a De Felice, avevano indicato fin dagli anni Ottanta nuove strade e stimolato le riflessioni più significative sull’eredità del fascismo e dell’antifascismo. La cosiddetta Seconda Repubblica ha accentuato questo fenomeno, con le pulsioni verso un superficiale revisionismo e verso l’uso della storia come strumento di propaganda. Il ridimensionamento dell’importanza dell’antifascismo non è solo un’operazione capziosa portata avanti da voci minoritarie dell’estremismo, ma si è inserito e si inserisce all’interno di un più vasto cambiamento culturale che, negli ultimi vent’anni, è sembrato tracciare l’orizzonte di un’Italia “post-antifascista”. Ancora oggi esiste una “politica della memoria” che cerca di liberare la storia nazionale del fascismo e dell’antifascismo con finalità politiche. Recentemente, proprio guardando al caso italiano, lo storico inglese David Broder ha scritto: “la rilettura della Seconda guerra mondiale riguarda più il presente che il passato; è una lotta per stabilire i confini del patriottismo e della legittimità politica, nonché delle figure a cui spetta tracciare quei confini”. Siamo di fronte ad un bivio. Dobbiamo respingere questi tentativi di riscrivere la storia per non tradire la Costituzione e i suoi valori, per gettare un ponte verso il futuro e le nuove generazioni, per rispettare la nostra democrazia e renderla più forte.

 

Non si tratta di resuscitare un passato che non passa, né di fomentare nuove divisioni tra italiani. Si tratta piuttosto di riconoscere che senza la reazione morale e politica rappresentata dalla Resistenza e dalla lotta antifascista il ritorno alla democrazia e la transizione verso la Repubblica sarebbero stati molto più incerti, molto più difficili. Il linguaggio dell’antifascismo, specialmente oggi, non può che essere il linguaggio della trasparenza e della verità, contro ogni settarismo e contro ogni, più o meno velata, discriminazione. Non dimentica il sangue versato, ma sa guardare avanti. La nostra democrazia è antifascista perché mantiene in sé una radice profondamente umanistica e rappresenta un completo rovesciamento del sistema di valori sui cui si imperniava la dittatura. Essa sostituisce il metodo della violenza e della sopraffazione con il metodo della libertà e della democrazia. Come ha scritto il filosofo Norberto Bobbio, nel 1994:

 

“La Liberazione ha posto le premesse per stabilire in Italia le condizioni di una libera gara fra parti diverse, avversarie non più nemiche. La prima durevole creazione di questa libera gara è stata la Costituzione repubblicana. Ebbene, i capisaldi della Carta costituzionale sono due: l’art. 2, secondo cui ‘la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo’; l’art. 3, secondo cui ‘tutti i cittadini hanno pari dignità sociale’. Imprimiamoli bene in mente questi due principi. C’è qualcuno che li rifiuta? Credo proprio di no. E allora possiamo dire che sino a che varranno ci sarà uno Stato democratico in Italia, e che, sino a che vivremo democraticamente, l’origine di questo Stato deve essere cercata negli eventi della fine di aprile e dei primi di maggio del 1945, in Italia e in Europa, quando sono stati sconfitti nazismo e fascismo, i cui principi ispiratori erano non la libertà, ma l’ordine imposto dall'alto, non la pari dignità di tutti gli uomini, ma la divisione tra popoli o razze superiori e inferiori. Se antifascismo significa letteralmente il contrario di fascismo, penso che possiamo continuare a chiamarci a pieno diritto antifascisti, anche se dobbiamo augurarci che in una democrazia compiuta l'antagonismo fra fascisti e antifascisti cessi di essere attuale. È vero che non basta essere antifascisti per essere buoni democratici. Ma è altrettanto vero che chi continua a esaltare il fascismo, com’è accaduto anche in questi giorni, suscita il sospetto di non essere buon amico della democrazia”.

 

Oggi, alla vigilia del centenario della sua tragica morte, dobbiamo ricordare una volta di più che l’antifascismo nasce, nel nostro paese, grazie al pensiero e all’azione di un grande polesano e di un grande italiano come Giacomo Matteotti. Matteotti è il primo dirigente del movimento operaio a respingere in blocco il fascismo come ideologia basata sull’esaltazione della violenza e sull’uso sistematico di essa, attraverso la sua testimonianza concreta di vita e di azione, ma anche compiendo una lucida analisi politica e intellettuale del fenomeno. Egli non cede neppure quando parti del movimento socialista e del mondo sindacale sembrano orientate a ricercare un compromesso con il fascismo, inseguendo una chimerica normalizzazione dei rapporti con l’ex socialista Mussolini. Matteotti è il dirigente del movimento operaio che, prima e più di altri illustri dirigenti e teorici, si dimostra in grado di comprendere chiaramente come la difesa delle conquiste civili e sociali del movimento operaio italiano dovesse passare attraverso la difesa intransigente del Parlamento e della centralità del Parlamento come effettivo baluardo della democrazia e del diritto.

 

Esattamente cento anni, nell’autunno del 1923, Matteotti cominciava il lavoro di stesura di Un anno di dominazione fascista, il libro che avrebbe spiegato agli italiani e non solo come il fascismo si stesse giorno dopo giorno avviando a diventare una dittatura. Di fatto, solo dopo l’assassinio del deputato socialista, Un anno di dominazione fascista potrà conoscere una vera circolazione, per essere di seguito tradotto in francese, inglese, tedesco, ed essere diffuso a livello internazionale, sull’onda di una crescente indignazione dell’opinione pubblica per quanto era accaduto all’uomo politico polesano, il principale oppositore dell’ex socialista Mussolini. Dati alla mano, come si dice in questi casi, Matteotti contesta che il governo abbia davvero migliorato la situazione economica: se aumentano i profitti, infatti, diminuiscono i salari, si aggrava il debito pubblico, cresce la disoccupazione e peggiora nel complesso la condizione dei lavoratori. Lo stato viene letteralmente occupato dai nuovi arrivati, dai fascisti appena insediati al potere (ed ecco il Gran consiglio che esautora il Consiglio dei ministri, la Milizia di partito pagata dallo stato, l’amnistia per gli autori delle violenze, la tessera del partito come condizione per “rimanere tranquilli” nel pubblico impiego ecc.), mentre più di cinquecento amministrazioni locali, province e comuni, vengono sciolte arbitrariamente. Chiudono il volume le frasi più significative e minacciose di Mussolini e della stampa fascista (“Se la dittatura non è stata instaurata, la Camera è pregata di non nutrire illusioni. Se farà dei mali passi sarà soppressa”) e un lungo elenco delle violenze commesse sui territori dagli squadristi e delle azioni condotte contro la stampa di opposizione, o semplicemente non omologata, boicottaggi, bastonature, assalti alle redazioni e tipografie devastate, uno stillicidio che diventa, pagina dopo pagina, la cronaca puntuale della svolta autoritaria. Torniamo a leggere queste pagine, per conoscere e comprendere alcune delle pagine più buie della nostra storia e come possa “morire una democrazia”. Finalmente, oggi, possiamo riappropriarci con piena consapevolezza di questo pezzo della straordinaria eredità matteottiana. Ad un secolo di distanza da quegli avvenimenti, Un anno di dominazione fascista mantiene intatta la sua forza. Una modernità che rimanda ad almeno tre ordini di ragioni: la modernità indiscutibile di Matteotti come dirigente politico e combattente per la libertà, in grado di compiere una preveggente analisi del fascismo; la capacità del suo libro di rendere in maniera trasparente la logica eversiva del fascismo, scardinandola e mettendo in luce il collegamento tra le idee predicate e le azioni compiute, nonché la rete di complicità e alleanze che segnano l’ascesa apparentemente inarrestabile dello squadrismo; l’attualità della tematica perché – come è stato osservato – il libro costituisce ancora oggi una bussola per cercare di orientarsi nel mare magno dei vecchi e dei nuovi autoritarismi e prendere in esame la qualità delle democrazie.

 

Proprio perché il nostro paese ha saputo riguadagnare la libertà passando attraverso la tragedia della guerra, grazie al sacrificio e all’eroismo di tanti italiani, spesso giovanissimi, spesso di umili origini, con un ruolo essenziale avuto dalle donne, di donne come Tina Anselmi e Lina Merlin, che per la prima volta vedevano all’orizzonte la possibilità di costruire una democrazia in cui fossero finalmente riconosciuti pieni e pari diritti, noi conosciamo bene il valore della pace e del dialogo. Pace, dialogo multilaterale, impegno per la democrazia e per il rispetto dei diritti umani: oggi più che mai l’Italia deve poter agire in questa direzione, un lavoro non facile, ma questa è la sua storica vocazione di paese europeo e mediterraneo. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una Europa che sia finalmente capace di muoversi come attore politico di rilievo sulla scena internazionale e, memore delle guerre che per secoli hanno insanguinato i suoi confini, operi concretamente per la risoluzione dei conflitti. La guerra in Ucraina, le guerre in Africa – di cui poco o niente si parla, l’aggressione terroristica a Israele e il nuovo drammatico conflitto israelo-palestinese ci consegnano il quadro di un mondo instabile, violento, folle, che sembra sull’orlo di quella che papa Francesco ha definito “la terza guerra mondiale a pezzi”, o forse ne è già dentro fino al collo, se ricordiamo – e purtroppo le ricordiamo bene – le immagini di questi ultimi giorni, le torture, i massacri, le bombe. Una situazione che ci carica, tuttavia, anche di più forti responsabilità come uomini e donne, cittadini e cittadine, e ci spinge ad agire, ognuno con la propria coscienza, la propria cultura, il proprio ruolo nella società, presso i governi e le istituzioni, affinché sia possibile far prevalere le ragioni del dialogo e, riconoscendo l’appartenenza ad una comune umanità, operare concretamente per cambiare le cose.