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Abdicata

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Abdicata

La mia collega Abdicata era talmente provinciale che per festeggiare la fine dell’anno scolastico, mentre noialtre sognavamo di regalarci un anello di brillanti o un paio di labbra più turgide, lei si era comprata un paio di zoccoli ortopedici.

Così provinciale che quando siamo andati in gita in Toscana, per tre sere di fila ha chiamato il parroco del suo paese per sapere chi fosse morto e chi, invece, ancora vivo. Talmente provinciale che quando si usciva a pranzo, ci costringeva a cercare la trattoria con il parcheggio meno affollato e per la cena di Natale propose entusiasta un locale con karaoke.

Il suo provincialismo raggiungeva vette inarrivabili quando si trattava di paesaggio e di fauna umana. Abdicata era attratta come una calamita da luoghi e persone con tratti simili: quieti, solitari e autenticamente caratteristici. Questi ambienti e questa gente, mi aveva confidato un dì in auto, l’aiutavano a tenere a bada la sua naturale inquietudine che, in situazioni più caotiche, sarebbe esplosa con effetti nefasti.

Per tutto ciò di cui ho appena accennato, Abdicata si era trovata a lavorare in una realtà di provincia: un paesino abitato da mille persone e diecimila zanzare dove, tra il bar della piazza e la bottega di alimentari, si ergeva un edificio stretto e alto adibito a scuola. Ad Abdicata quel parallelepipedo di calcestruzzo ricordava Don Chisciotte nella piana di El Toboso e, fin dalla prima volta che vi era entrata, aveva avvertito la sensazione di trovarsi nel posto giusto.

Abdicata arrivava ogni mattina mezz’ora prima del suono della campanella, con una pila di libri in mano e altrettanti schiacciati dentro ad una borsa di tela spessa che, il più delle volte, dimenticava in quello stambugio che per noi tutti era l’aula insegnanti ma che per lei era una delle stanze più belle al mondo, per via delle piastrelle alle pareti che le ricordavano la cucina della casa di sua zia.

Un giorno non sono riuscita a resistere e in quella borsa sfilacciata abbandonata sulla sedia ho ficcato il naso: ho provato la sensazione di averle sbirciato l’anima.

Abdicata aveva una serie di rituali: accoglieva i suoi studenti sulla porta, il lunedì si informava su quanti gol avesse incassato o portato a casa la squadra locale, appena possibile li portava a passeggiare per le carrareccie e a scambiare due chiacchiere con i compaesani.

Al termine delle lezioni faceva tappa tutti i santi giorni nel negozio di alimentari, da lei considerato come un luogo sacro. In quell’angolo resistente, tra fustini di detersivo e immaginette della Madonna attaccate con le puntine, Abdicata aveva stretto amicizia con alcune signore del paese, che spesso facevano arrivare a scuola vaschette di ragù avvolte nella stagnola.

Piacere al prossimo non era in cima agli interessi di Abdicata e, forse proprio per questo, la cosa le riusciva fin troppo bene. Ad attrarre, di lei, era la convivenza nello sguardo di sovversione e normalità, selvatica ed elegante allo stesso tempo. Attorno aveva sempre qualcuno, perché la sua aria svagata e il suo istinto a legarsi al vero erano ormeggio per chi le si accostava. Possedeva l’empatia di uno specchio, le sue uscite non erano mai prevedibili e per questo risultava anche molto buffa.

Una sera di luglio, nel mezzo delle vacanze estive (periodo in cui con Abdicata non ci si vedeva né ci si sentiva) passeggiando in riva al mare ripensavo a lei, a quel suo modo così bizzarro e per me così affascinante di stare al mondo.

Avevo delle domande da farle, delle curiosità da chiederle, voglia di tornare in quelle trattorie poco affollate.

Ma il primo giorno di scuola Abdicata non c’era.

Qualche tempo dopo ho saputo che si era trasferita in città, in una palazzina di un quartiere periferico.

Tutte le mattine raggiungeva la sua scuola in tram.

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