Agosto, racconto reportage di Federica Bertaggia
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Agosto

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Agosto

Quando è successo esattamente? Quando ho smesso di farmi domande per adeguarmi al falso mito del “più facile, più comodo, più economico”?  Dev’essere stato il sole di agosto, i 32 gradi delle 12.40 e la stanchezza di sentire le lagnanze di due bambini affamati. Dev’essere stato questo… spero.

Mercoledì 16 agosto, stiamo percorrendo in auto l’asse della statale Romea. Si avvicina l’ora di pranzo, i bambini reclamano una sosta. Le richieste sono mirate, qualche chilometro prima hanno visto il cartellone pubblicitario di un fast food con l’indicazione “A cinque minuti da qui”. Arriviamo. Il parcheggio è pieno, la corsia dedicata ai consumatori take away è intasata tipo fila al casello autostradale nei week end da bollino nero. Fosse stata più scorrevole forse mezzo pensiero l’avremmo fatto.

Parcheggiamo in un’area di servizio attigua a questo apparente paese del Bengodi dove, visto l’afflusso, alla maniera boccaccesca immagino che dentro quel cubo di vetro e ferro si possano trovare vigne legate con salsicce, montagne di formaggio e maccheroni, ravioli in brodo di cappone. L’area di servizio di cui indebitamente usufruiamo è un piazzale d’asfalto pezzato con al centro una pompa di benzina dal marchio e dai colori vagamente vintage, alle spalle della quale si trova un prefabbricato adibito a bar con un plateatico di tavolini e sedie di plastica. A far da cornice a questo ritaglio di vera resistenza socio-economica, una dozzina di auto parcheggiate da smaniosi avventori del colosso accanto. Tra cui la nostra.

A piedi raggiungiamo l’ingresso del fast food. Si entra senza dire “permesso” né “buongiorno”, nessuno se ne accorgerebbe. C’è gente ovunque. Mio figlio grande fa cenni orgogliosi: ha trovato un monitor libero dove digitare l'ordine del desinare. Forte di una pratica consolidata, è lui a guidare la scelta, muovendo il dito scaltro tra immagini di panini, crocchette di pollo e gelati, che possono essere minuziosamente personalizzati persino per quanto riguarda le due fette translucide di cetriolo messe tra l’hamburger e il formaggio. Una possibilità, quest’ultima, colta al volo da mia figlia piccola, che spodesta il fratello per completare il suo ordine e con una mossa lesta recupera uno degli ultimi segnaposto numerati rimasti disponibili. Tutto ciò mentre da una fessura sputa fuori la ricevuta con un Qr code che promette lo sconto su un successivo sandwich al bacon.

I tavolini dentro sono occupati, gruppi di ragazzi e famiglie aspettano che qualcuno si alzi per godere a loro volta dell’aria condizionata durante il pranzo. Proviamo fuori ma non va meglio. Gli unici posti liberi sono al sole, ci sistemiamo lì e attendiamo, neanche tanto, la consegna del pasto. Tutto buono, buonissimo, non c’è che dire. Ci alziamo, mi guardo intorno senza successo per vedere se c’è qualcuno a cui dire “Arrivederci e grazie” e ce ne andiamo.

Venti passi e siamo ancora nell’area di servizio attigua. L’istinto, e un briciolo di senso di gratitudine per aver fatto uso del parcheggio, ci porta ad entrare nel bar per un caffè. Il locale è vuoto tranne che per una coppia che sta pagando la consumazione al bancone. Finito di battere lo scontrino la barista mi guarda, mi saluta e mi fa un sorriso. Trasuda gentilezza e umanità. Sembra contenta di vederci. Sono stordita, quasi commossa. Vorrei abbracciarla, mi sembra di conoscerla da una vita. Finché prepara i caffè butto l’occhio: nella vetrinetta sono esposti panini e tramezzini avvolti nella pellicola e in un cartellone sono elencate varie proposte di primi e secondi piatti surgelati; il pavimento è pulito, in controluce non vedo una briciola; su uno sgabello sono appoggiati due quotidiani ma soprattutto mi accorgo che al centro di ogni tavolino è sistemato un vasetto con un mazzolino di fiori, di plastica ma pur sempre un gesto che dimostra cura.

“Zucchero preferito?”. La voce della barista mi riporta alla realtà. Allunga i caffè sempre sorridendo, aggiunge anche un bicchierino d’acqua e un cioccolatino. Vorrei stare lì, chiacchierare con lei per tutto il pomeriggio, domandarle: Perché? Ma perché sono stata così stupida? Invece le chiedo le chiavi del bagno e accompagno mia figlia in una toilette pulita e profumata di sapone. Restituisco il mazzo, la saluto e la ringrazio e quasi mi dispiace di andarmene.

L’unica cosa che mi viene da fare in auto è buttare lì ai miei figli qualche frase priva di retorica sul valore dei rapporti umani, sulla bellezza della gentilezza e sull’importanza di allenare uno spirito critico, senza il bisogno di uniformarsi sempre a ciò che fanno gli altri. Ma loro sono ragazzini svegli e precedono con semplici ragionamenti tutto quello che vorrei trasmettergli. “Mamma, prossima volta facciamo il contrario. Mangiamo un panino dalla signora, poi andiamo a prendere il caffè al fast food”, mi dicono. L’intelligenza artificiale ci soppianterà ma la bella notizia è che esiste (e resiste) ancora l’intelligenza umana.

Federica Bertaggia