Calcio, pane e salame
Sottotitolo non presente
Leggi l'articolo

- SCRITTURE
- |
- Notizia pubblicata il 13 gennaio 2025
- |
- Scritto da Federica Bertaggia
Fino a qualche tempo fa il mio orizzonte calcistico era assai limitato. “Calcio” era un’idea confusa in cui si mescolavano nomi e immagini come Milan, Inter, Juve, Del Piero, Baggio, Shakira, Gullit, Maradona, Ilary, la mascotte di Italia ’90 su una t-shirt slavata, gente ricca e poco altro.
Poi sono diventata madre di due creature strutturalmente iperboliche e portate agli eccessi che fino a sei, sette anni di vita coltivavano interessi intensi quanto singolari l’uno per i personaggi della mitologia greca, l’altra per le fatine dalle ali ricamate. Tutto ciò fino al giorno in cui le prime figurine di calciatori hanno fatto la loro apparizione a casa, complici una passione calcistica quiescente del padre, un nonno milanista, un edicolante stravagante e compiacente.
Sembrava un interesse tiepido e passeggero ma presto l’album è diventato oggetto di studio e la passione si è fatta scienza grazie alla comparsa di alcuni libri-enciclopedia a tema. Il candore puerile ha lasciato spazio al tifo sfegatato per la squadra del cuore, di cui i miei figli conoscono formazioni attuali e passate, storia, aneddoti e impensabili minuzie. Da lì tutto un crescendo che ha attraversato le fasi dell’iscrizione alla società calcistica del paese, di allenamenti sotto il sole e le intemperie, di partite domenicali nei campi più sgarrupati della provincia fino alla richiesta di assistere a una competizione di serie A.
È stato così che, controvoglia e con una certa sufficienza, ho voltato il tornello di uno stadio per la prima volta nella mia vita: 6 gennaio 2024, Udinese-Lazio, stadio Friuli.
Della partita non ricordo nulla perché, con lo stupore dell’iniziata a un rito tribale, non ho mai staccato gli occhi dalla curva friulana, stregata dal vessillo con l’aquila araldica dal rostro aperto, dai bandieroni bianconeri, dai cori in quella lingua dura e arcaica e dagli striscioni di quei club di paese che organizzano corriere per le trasferte e un attesissimo terzo tempo con pane e salame alla fine di ogni match.
Mentre i cori risuonavano come un peana mi si è aperto un flusso di ricordi che spaziano dai romanzi di Carlo Sgorlon, udinese di Cassaco, cantore dei miti e della religiosità di un mondo che non esiste più, agli gnocchi mangiati dai Boscutti di Cividale quasi vent’anni fa, ai pignarulǎrs e ai loro carri infuocati dell’epifania tarcentina a cui sono molto affezionata.
Proprio per questo legame con Tarcento, comune alle pendici delle Prealpi Giulie, l’occhio si è fermato sullo striscione del club locale “I amîs dal Udines”, dietro il quale ho visto i volti di Marco e Annalisa, che non sapevo ancora fossero Marco e Annalisa ma che nei mesi successivi avrei cercato nella folla dei vari stadi, in casa e in trasferta, dietro al loro mitico striscione.
La partita è finita 1 a 2 e io, padovana di nascita e polesana per istinto, avulsa dal calcio fino a due ore prima, sono tornata dichiarandomi tifosa bianconera, esaltata non tanto dalle prodezze calcistiche bensì da quel microcosmo avvolto di misticismo quasi quanto un rituale pagano con tanto di fedeli e officianti.
L’onda del mio neonato entusiasmo calcistico è stata prontamente cavalcata dai già rodati tifosi della famiglia che hanno finito per trascinarmi allo stadio quasi ogni fine settimana, a vedere soprattutto le loro squadre del cuore di ogni serie e categoria. Ma per me, se non gioca l’Udinese, l’interesse è trascurabile e l’attenzione è tutta volta alle curve, che rappresentano veri e propri trattati viventi di antropologia, espressioni di peculiarità sociali, psicologiche e attitudinali di una estesa rappresentanza umana.
Perché assistere ad una partita è una chiave di accesso privilegiata alla comprensione della società e per giovani come i miei figli spero possa rappresentare un’esperienza di educazione morale, se non altro di discernimento comportamentale per la vasta gamma di atteggiamenti cui si ha il privilegio di assistere dagli spalti.
L’idea che mi sono fatta è che il calcio e tutti i riti sociali che gli girano attorno risponda a un’esigenza più o meno diffusa di compensare la razionalizzazione soffocante imposta dalla modernità, che porta a smarrire il senso istintivo della vita. Un’azione ben fatta, uno scarto, un gol alimentano l'imprevedibilità e l’incertezza, sentimenti che tengono vivi più di ogni altra situazione ovvia e ripetitiva. È una sorta di rito liberatorio che fa sognare e rafforza i legami fra sodali. Anche per questo, per quanto mi riguarda, il calcio c’entra molto con la letteratura e la poesia perché, tutto sommato, ciò che accade in campo e intorno al campo è un evento di natura estetica, a tratti coreutica, che fonde valori stilistici come regole e ritmo con il pathos della vittoria, della sconfitta, della rivincita, della forza, dell’intelligenza, dell’amicizia e dell’ostilità. In poche parole il calcio - quello che vedo e vivo io da tifosa, non quello del mercato milionario o, peggio, della violenza, che non conosco e non mi interessa - sta più dalla parte dell’arte che della vita reale.
Così un bel giorno, animata da questo novello fervore, ho vinto gli indugi cercando sui social il club “I amîs dal Udines” di Tarcento. Qualche tempo dopo ho conosciuto il presidente Marco e sua moglie Annalisa. Allo stadio, tra un tempo e un altro di Udinese-Torino, ci siamo stretti la mano attraverso le barriere che dividono la curva dalla tribuna. Due parole al volo, uno scambio di sguardi tra gente che si riconosce e la promessa di brindare presto insieme, a una vittoria dell’Udinese o una nuova amicizia, poco importa.
Perché il calcio, almeno quello pane e salame che piace a me, non ci si limita a giocarlo o a guardarlo: se ne parla per parlare della vita e del modo di intendere il mondo.