L'importanza dell'opera di Italo Calvino, di Federica Bertaggia
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Italo Calvino, “scoiattolo della penna”

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Italo Calvino, “scoiattolo della penna”

Ho capito che Italo Calvino mi era entrato sotto pelle quando ho iniziato a vederlo negli altri. Proprio lui, non i personaggi usciti dalla sua penna. Un giorno di tanti anni fa ho rotto il pc, quello fisso e pesante. Ho chiamato l’assistenza e nel giro di mezza giornata ha suonato il campanello un signore di media statura, capelli e occhi scuri, stempiatura alta. Era identico al Calvino delle foto che avevo visto nelle bandelle dei suoi libri. Ho sperato tanto si mettesse a parlarmi di Cosimo Piovasco, di Medardo di Terralba, del mio adorato Marcovaldo. Invece niente. Ha formattato in silenzio, strappato la fattura e salutato.

Quest’episodio risale agli anni dell’Università, nel periodo in cui frequentavo a singhiozzo un seminario di scrittura che prevedeva una parte teorica e una parte pratica. Nelle ore di teoria si leggeva. Sotto il sole giaguaro, Palomar, Lezioni americane li ho divorati lì, con la fame e la sagacia dei vent’anni, su una panchina del cortile universitario, nel corso di svariati torridi pomeriggi estivi. Nelle ore di pratica si scriveva. Sempre lì, in quel cortile, fulminata dai valori che Calvino esaminava nelle sue lezioni d’oltreoceano, ricordo di aver buttato giù un saggio che parlava di ombelichi, energia e quadrati svedesi. Quanto darei per poterlo rileggere ma l’avevo scritto a penna su un foglio di carta, chissà che fine ha fatto. In quelle riflessioni c’era già tutto quello che sento oggi per Italo Calvino e sicuramente anche di più, dal momento che il tempo e la vita tendono ad erodere le intuizioni di gioventù un po' come fa il vento sfiorando le cime delle montagne.

Non sono una studiosa di Calvino, è bene dirlo. La sua biografia, quando mi interessava sapere qualcosa, l’ho cercata nelle prime pagine dei suoi racconti e su Google. La sua parabola ideologica, per quanto riconosca sia legata a doppio filo alla sua produzione letteraria, mi interessa fino a un certo punto. Ho letto veramente, con coscienza e con piacere, credo neanche la metà della sua vastissima produzione. Il mio approccio a lui e alla sua narrativa non è e non è mai stato scientifico. È un rapporto, quello che mi lega ai suoi scritti, che ha a che fare con la pancia e i ricordi, che dondola in una dimensione nebulosa dominata dall’istinto, dove la ragione non trova spazio.

Come tanti della mia generazione, Calvino l’ho conosciuto alle scuole medie con la trilogia dei Nostri Antenati, Il barone rampante, Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente, grandi classici che inesorabilmente compaiono nella lista dei consigli di lettura per le vacanze estive. Li ho letti annoiata, non mi piacevano. Mi risultavano difficili e troppo macchinosi. Il coup de foudre è arrivato con Marcovaldo, letto in classe durante l’ora di Narrativa che aveva liberamente istituito la mia prof. di Lettere, Maria Gloria Bertolotto, alla quale non sarò mai abbastanza grata per tutto ciò che ha seminato in noi in quel triennio, per averci assiduamente nutriti di Poesia, per aver infilato, un giorno, la videocassetta dell’Armata Brancaleone, per avermi iniziata alla passione per le etimologie e tantissimo altro. Probabilmente lei amava Marcovaldo come lo amo io adesso, altrimenti non mi spiego come abbia fatto a trasferirmi l’affetto smisurato che nutro nei confronti di questo maldestro operaio, creatura disadattata per antonomasia in ogni ambiente, in ogni luogo, in ogni situazione raccontata da Calvino. Marcovaldo per me è un concentrato perfetto di tutto ciò che vale la pena sottoporre agli adolescenti di oggi, solo se chi lo fa lo ama veramente, beninteso: divertimento, filosofia alla loro portata, sguardo raffinato e cinico nella giusta misura, palestra per allenare l’abilità di prestare attenzione alle piccole cose, capacità di fantasticare e di non arrendersi mai nel tentativo lungo una vita di stabilire una connessione armonica con il mondo in cui viviamo. Marcovaldo, insieme all’Iliade e all’edizione dell’Eneide su cu cui ho studiato al liceo, è un libro che tengo sul comodino perché ho bisogno di tornarci spesso.

Lui non lo saprà mai e anche se lo sapesse non credo gli importerebbe, ma sono infinitamente grata a Italo Calvino anche perché una citazione impulsiva dell’incipit di Se una notte d’inverno un viaggiatore, che ha sorpreso me per prima, mi ha consentito di fare una dignitosa figura ad un esame importante, sul quale avevo investito due anni di studio, sudore e fatica. Questo basterebbe ad estinguere ogni dubbio, qualora ce ne fossero, circa il vantaggio di leggere Calvino. E, in generale, di leggere.

Quest’estate mi aspetta la lettura del racconto La giornata di uno scrutatore e chissà, forse di qualcos’altro uscito dalla mente dello “scoiattolo della penna”, come Cesare Pavese definiva Calvino. Per questo prendo in prestito le sue parole e mi faccio un auto augurio, che estendo a tutti coloro che, come me, amano Calvino con la pancia e non la ragione: “Leggere è andare incontro a qualcosa che sta per essere e ancora nessuno sa cosa sarà”.

E comunque tanti auguri anche a te, Italo.

 

Federica Bertaggia