La fermata sbagliata, parte 1
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La fermata sbagliata (prima puntata)

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La fermata sbagliata (prima puntata)

Federica Bertaggia, giornalista di lungo corso e oggi anche insegnante alla scuola media, ci regala a partire da oggi questa rubrica dal titolo bellissimo (titolo che viene da un racconto di Italo Calvino) nella quale ogni due settimane parlerà del suo lavoro, della splendida fatica di aver a che fare con ragazzi di un’età molto particolare come è quella che hanno gli studenti che frequentano le scuole medie.

La scrittura di Federica è limpida e ricchissima di spunti, ma soprattutto piena di calore: l’abbiamo fortemente voluta perché la sua è una riflessione in forma di diario su un tratto molto difficile del percorso scolastico, di cui ci sembra si parli molto poco e, quando lo si fa, con i soliti luoghi comuni: proprio quello che, in questi densissimi testi, Federica non fa.  





Caro diario,


ultimamente ho una nuova fissa. Sono fissata con tutto ciò che dice e scrive Umberto Galimberti, studioso della mente umana e filosofo. Ai tempi dell’università successe lo stesso con Italo Calvino, poi con le poesie di Umberto Saba. Qualche anno fa capitò con la scrittrice Andrea Marcolongo (quanto mi è piaciuto “Alla fonte delle parole”, Mondadori), a seguire per mesi non ho fatto altro che leggere saggi sull’Iliade di Omero; poi è stata la volta di Giovanni Pascoli, per non parlare della scorsa estate al mare quando – con fatica, ammetto - mi sono dedicata a Don Chisciotte. Chi cattura i miei pensieri apparentemente non ha fra sé granché in comune. 

Quando mi succede divento monotematica, monografica e anche molto monotona: leggo, ascolto e associo cose della vita ai grandi temi cari al mio ispiratore o alla mia musa. Per dire, nella fase “pascoliana” che ancora perdura, la vita contadina o il rintocco delle campane risuonano in me come pura poesia e la memoria dei versi mi sorprende facendo le cose più banali. In questi periodi cambia anche il mio linguaggio, non è una novità che quest’ultimo sia fortemente marchiato dai nostri pensieri. Si modifica anche il modo di vedere ciò che mi circonda.

Tornando a Galimberti, di lui mi piacciono un sacco di cose. Mi piace che quando parla degli antichi Greci, li chiama “gente seria”. Mi piace quando sostiene che non serva a nulla riempire le scuole di computer se di pari passo si riduce la Letteratura, ossia il luogo in cui si apprende cos’è il dolore, cos’è l’amore, cos’è la gioia, cos’è la felicità, cos’è la disperazione, la noia e tutto il resto. Perché i nostri figli potranno essere i migliori specialisti al mondo, ma se non sono formati emotivamente come Donne e Uomini è un disastro. 

Mi piace anche il tono della sua voce, mi rassicura molto quando afferma che “il massimo della potenza intellettuale si ha tra i 15 e i 30 anni. Einstein ha scritto la sua formula a 24 anni, Leopardi l’Infinito a 21, Mozart ha fatto il primo grande concerto a 17. Il resto della vita è solo un ricamare ed elaborare quelle idee”. Il cruccio di aver superato il traguardo in cui si possono avere i colpi di genio l’avevo in testa da un po'. Lui ha dissolto l’ombra di questo pensiero e mi ha dato le parole per esprimerlo. Succede così con i “maestri”. 

Dicevo, da mesi leggo i suoi saggi, mentre cammino ascolto le registrazioni dei suoi interventi sull’illusione della libertà, sui rapporti sociali nell’età della tecnica, spulcio il web alla ricerca di articoli su di lui, delle sue interviste. 

Ne consegue che, fresca di riflessioni, guardo i miei alunni e mi crogiolo nei pensieri. Sono ragazze e ragazzi delle medie. Hanno l’età giusta per iniziare ad appassionarsi al sapere, per approcciare la poesia, per imparare ad esprimere emozioni e pensieri con le parole giuste. Tutto questo, per quanto mi riguarda, passa attraverso il tempo “umanistico” che trascorriamo insieme. Loro sono, per tornare a Galimberti, sulla soglia dell’età della svolta, delle intuizioni folgoranti, di quel bisogno di costruire loro stessi ma anche di lasciare un segno nel mondo che abbiamo provato tutti con intensità variabili. Sembra retorico tutto ciò. Perché poi li guardi e francamente vedi un gruppo di individui che fatica a mantenere l’attenzione per più di tre minuti, che ha continuo bisogno di muoversi e di distrarsi, di provocare con gesti o parole infantili il compagno o la compagna accanto. Un groviglio di acerbità e chiasso che tutto sembra emanare, tranne una pulsione incontrollabile verso i grandi temi della letteratura. 

Però a volte succede il miracolo. È questione di attimi in cui sembra che la passione di chi spiega li catturi. Allora senti che “li hai”, hai la netta sensazione che in quel momento qualcosa in loro si stia depositando. 

Ho scritto “passione” ma non è mia intenzione caricare di enfasi questa parola. Preferisco associarla alla sorella “pazienza”: etimologicamente passione e pazienza hanno più o meno lo stesso significato. Derivano dal verbo deponente “patior”, soffrire ma anche sopportare, subire ma anche sostenere. 

“Non esiste passione senza pazienza – scrive Andrea Marcolongo nel succitato libro – che si attenda qualcuno o qualcosa, l’idea di attesa è intrinseca a quella di desiderio”. La forza di questo doppio etimo è che per accendere le passioni ci vuole tempo. Ci vuole, appunto, pazienza. 

Azzardo che forse serve un’altra cosa che esteticamente c’entra molto con la passione. Ci vuole un cuore che batte. L’idea me l’ha suggerita un altro Umberto, Gastaldi si chiama. È quell’anziano prof. di Filosofia (anche lui, guarda caso) assurto alle cronache perché, solo e malato, è stato ricontattato dai suoi ex allievi che in mezza giornata hanno fatto rete da ogni dove la vita li avesse portati per prendersi cura di lui. Quando è stato chiesto a questo vecchio signore come si spiegasse un affetto e una riconoscenza così persistenti da parte dei suoi studenti, lui ha buttato lì una frase: “Quando insegnavo mi batteva sempre forte il cuore”. Che il segreto sia proprio questo?


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