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Diego Valeri: giorno dopo giorno scrivo / il mio nome sul vento

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Diego Valeri: giorno dopo giorno scrivo / il mio nome sul vento

 

Ascolto il dolce suono;

né so se più m’attristi o più mi giovi

l’essere vivo ancora, nel mio chiuso

corpo di carne, nel fluire uguale

del mio sangue che fugge per la notte

con striscio d’acque vicine lontane.

 

Ci troviamo di fronte, carissimi amici Lettori, ad un poeta tanto grande quanto dimenticato.

Dicono bene le parole di Pier Vincenzo Mengaldo (filologo, critico letterario e linguista italiano, oltre che storico della lingua italiana; professore emerito di Storia della lingua italiana presso l'Università degli Studi di Padova, dimostratosi sensibile ai metodi della critica stilistica; autore di numerosi studi che vanno dall'epoca di Dante al Novecento):

«Nato più di un decennio prima dello scoccare del secolo ven­tesimo Valeri, non diversamente dal suo coetaneo Saba, ha continuato sempre ad usare con naturalezza tutta una serie di aulicismi e poetismi, tra l’altro consoni al tradizionalismo delle scelte metriche, probabilmente convinto sottopelle, un po’ appunto come Saba, che quelli fossero l’insegna della lirica in quanto tale (perché poi la prosa di Valeri, come la sabiana, è del tutto ‘normale’)»

A me sembra, rileggendo in questi giorni la sua opera Poesie vecchie e nuove, pubblicata da Mondadori nel 1930 (oggi la si trova nelle librerie antiquarie ad un costo considerevole). Credetemi, ne vale davvero la pena!

Nato a Piove di Sacco nel 1887 e morto a Roma nel 1976 [una lunga vita dunque], Valeri raccolse in questo volume, come si evince dal titolo, sue liriche già presenti in vecchie raccolte insieme ad altre più recenti, magari pubblicate già su riviste ma mai in volume. Sempre Valeri, dopo l'uscita di quest'opera poetica, volle che fosse considerata la sua "prima", quasi a voler rinnegare le altre. Dopo alcune ristampe, nel 1952 vide la luce la quarta e definitiva edizione di questo libro in cui risultano escluse alcune liriche presenti nell'edizione del 1930, a conferma della costante tendenza di Valeri a sfrondare, scremare la sua produzione in versi. L'edizione definitiva, appartenente alla collana mondadoriana dello Specchio è composta di 128 pagine e di 64 poesie.

~•~

Spesso Valeri è detto muoversi «indiscutibilmente» lungo la «linea Petrarca-Leopardi-simbolismo francese-Pascoli e crepuscolarismo».

Secondo la vulgata critica, egli sarebbe un simbolista imprestato ai cre­puscolari o un crepuscolare saldamente legato al simbolismo. Si fac­cia un raffronto bibliografico con i crepuscolari: Monodia d’amore di Valeri è del 1908 e forse un po’ in ritardo, se l’anno successivo, il 20 febbraio 1909, Marinetti pubblica il manifesto del futurismo su «Le Figaro». D’altronde è inevitabile – lo assicura la biografia del poeta nato nel 1887 – che Valeri si sia formato in un ambiente che guardava alla poesia francese della seconda metà dell’Ottocento e al contempo si avviasse al crepuscolarismo.

Che l’ambito poetico nel quale Valeri muoveva i primi passi fosse quello simbolista e crepuscolare non è errato, ma va contestualizzato nell’ambiente culturale dei primi lustri del Novecento. È quanto sostiene Mengaldo, quando afferma che Valeri «è sempre rimasto legato, quasi da epigono, a una formazione che sta fra i simbolisti francesi (in primo luogo Verlaine), crepuscolari, D’Annunzio (correggendo il modello pa­radisiaco con l’alcionico e viceversa) e specialmente Pascoli». Tale assunto è ribadito pure da Andrea Zanzotto, per il quale la poesia del suo maestro è «nata da un’esperienza post-simbolistica» e adiacente «a quella crepuscolare (anzi coetanea, nelle sue origini)». Mengaldo è tuttavia consapevole della specificità valeriana e si associa al discorso di Baldacci: «per una critica deferente a una visione “modernistica” a senso unico del Novecento poetico, era difficile dar conto di una lirica della grazia melica e della – reale o apparente – semplicità com’è questa, aliena dalle corrosioni intellettualistiche e dalla poesia al quadrato».

~•~

Ma… leggiamole queste stupende poesie:

Venezia

La pietra alzata su l’acqua

lambita corrosa dall’acqua.

Nel silenzio della pietra e dell’acqua

il fruscio della luce a fior dell’ombra.

 

Tempo che lontanissimo canta

da un cielo di pietra e d’acqua di silenzio.

Tempo come un cuore che in profondo batta,

scandendo solo un nome, un nome che canta.

 

Qui c’è sempre un poco di vento…

Qui c’è sempre un poco di vento,

a tutte l’ore, di ogni stagione:

un soffio almeno, un respiro.

Qui da tanti anni sto io, ci vivo.

E giorno dopo giorno scrivo

il mio nome sul vento.

 

Batte il mattino…

Batte il mattino al ferrigno bastione

dei nuvoloni notturni: repente

s’apre una lunga fessura lucente,

scoppia uno squarcio di fiamma più su.

 

Un razzo d’oro; e un sussulto, un tremore

d’oro per l’ombre; oro a rivoli, a onde…

Più in alto: spiagge di nuvole bionde,

calme e profonde lagune di blu.

 

Riva di pena, canale d’oblio…

Ora è la grande ombra d’autunno:

la fredda sera improvvisa calata

da tutto il cielo fumido oscuro

su l’acqua spenta, la pietra malata.

 

Ora è l’angoscia dei lumi radi,

gialli, sperduti per il nebbione,

l’uno dall’altro staccati, lontani,

chiuso ciascuno nel proprio alone.

 

Riva di pena, canale d’oblio…

 

Non una voce dentro il cuor morto.

Solo quegli urli straziati d’addio

dei bastimenti che lasciano il porto.

 

I nuovi giorni

Oh l’alberello della primavera,

biancopiumato, dolcesplendente,

anche una volta mi prende il cuore,

come ogni volta al ritornar dell’anno.

 

Quale speranza nuova? quale attesa?

Che porteranno i nuovi giorni?

Nulla. Ma intanto è apparso il grande uccello

bianco, improvviso, in mezzo al campo nero.

~•~

Negli Novanta la rivista Controverso di Cosenza mi invitò - attraverso amici comuni di poesia… ah! che bei ricordi e tempi, che forse non ritorneranno mai più… sigh! - a scrivere su Diego. Ma che strano, mi sorpresi a dire: un periodico del Meridione che si interessa di un poeta del Veneto mentre noi l'abbiamo completamente e ingiustamente dimenticato.

Mi fece un piacere immenso.

Ecco, cari Amici lettori, una parte di quello scritto che avevo scordato ma che invece l'archivio poetico di casa mia ha sempre custodito, credo con estrema gelosia perché era la mia prima prove oltre i confini del Polesine:

 

Sono tempi in cui le poesie di Diego Valeri non si ristampano. Si preferiscono altre cose che non si sa dove possano portare, a differenza di questi versi. A quell’epoca erano praticamente introvabili. Solo una snervante e improbabile ricerca nelle librerie antiquarie - che siano sempre benedette - poteva dare qualche prelibato frutto.

Eppure Valeri è poeta finissimo come pochi. Uno dei più limpidi e freschi del primo '900.

Per quel suo modo di guardare con stupore, scoprendovi sempre nuove meraviglie e legandovi pensieri che in lui paiono nascere senza sforzo, nella maniera delle acque sorgive.

Dagli inizi, certamente crepuscolari e romantici, seppe procedere ben oltre: una cifra - la sua - intrisa di semplicità, di nitore; chiarezza espressiva e di umana empatia e simpatia.

Ne sono testimoni i versi di Riva:

Il mio bene è su questa lunga riva / dove lunghi si stendono i tramonti / del cielo e del canale: un rosso un oro / di ricordo a inseguir la fuggitiva / felicità del sole, un fermo volo / di spazi tra dirupati orizzonti / sparsi di fuochi vaghi; e gli oscillanti / alberi dei velieri con la rete / delle tremule corde, e questo canto / silenzioso d'acque vive e chete / che si spengono in ombra d'amaranto.

Non vi sembra bellissima?

Valeri ama Venezia: il suo paesaggio tanto lagunare quanto regale come il Bucintoro del Doge. Per il poeta è il luogo unico ed esemplare dello spirito, cui abbandonarsi per gioire e sognare. Straordinari certi passi di Fantasie veneziane: la città è qui colta nel segreto stesso della sua anima, fatta di stupefacente bellezza e mistero.

Scrive:

D'estate, Venezia è tutt'un impasto amoroso di sole pietra acqua gondole. D'inverno, invece, pare che i raggi la sfiorino appena - timorosi della sua potenza illustrata dai secoli - illuminandola senza “penetrarla”. Pronti sempre a fuggire sono al loro lucido polo. Città di lineamenti minerali. Precisi. D'esatte architetture che danno scoramento. Cielo a inchinarsi. Terra come zerbino. Così - spoglia di ogni velo - nuda casta. Concretezza antica. Nuova. L’aria di un paese metafisico.

Se guardiamo in fondo alla sua opera non possiamo non accorgersi che è una poesia di piccole cose. Attenzione! Non una poesia povera, piccola. È una poesia di sentimenti autentici, che esprime serenità. Che allieta, anche quando è sommessa, il cui segreto è racchiuso nella compiutezza formale, frutto di esercizi lunghi. Consapevoli.

Infine: una poesia che trova nel mondo esterno il proprio correlato oggettivo. Mai pecca di presunzione, di descrittivismo, perché l'Altro da sé è in esso Specchio. Interiorità dell'Autore.

Vi lascio con Notturno: una lirica tarda.

Il poeta veneto ha già superato gli ottant’anni quando la scrive, ed è naturale che mediti sulla vita e sulla sua fine.

Musicalità: che entra nella poesia stessa con quel “suono dolce con lungo pedale”, tipico del pianoforte, al quale il poeta paragona lo scorrere dell’acqua di un canale – occorre ricordare che Valeri viveva a Venezia, in Calle del Vento [nome bellissimo].

Scorrere dell’acqua a sua volta paragonato al trascorrere del tempo:

La testa sul cuscino, odo strisciare

nella tenebra grandi acque vicine,

più vicine, lontane.

È un suono dolce con lungo pedale,

è l’infinita musica del tempo

che mi rapisce fuor del tempo, poi

che la fuga dei giorni è già l’eterno

e la vita che muore è già la morte.

Ascolto il dolce suono;

né so se più m’attristi o più mi giovi

l’essere vivo ancora, nel mio chiuso

corpo di carne, nel fluire uguale

del mio sangue che fugge per la notte

con striscio d’acque vicine lontane.

(da Verità di uno, 1970)


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