Il nuovo libro di Maurizio Romanato e Alberto Burato
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Il nuovo libro di Maurizio Romanato e Alberto Burato

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Il nuovo libro di Maurizio Romanato e Alberto Burato

Esce oggi giovedì 28 settembre 2023 il nuovo libro di Maurizio Romanato e Alberto Burato "Murat, la disfatta militare e diplomatica", realizzato in collaborazione con l'Associazione Tolentino 815.

Il volume prende in considerazione gli anni 1814-1815, che furono cruciali per il riassetto dell’Europa uscita sconvolta e stremata dalla Rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Una fase turbolenta che si doveva e si voleva trasformare in un ricordo in vista di una quiete duratura. La prima capitolazione della Francia e i successivi trattati di pace lasciavano aperte molte questioni, tra cui quelle dei diritti e delle nazionalità, alle quali non riuscì a dare risposta compiuta neppure il lungo congresso di Vienna. 

Secondo diversi piani di lettura, gli autori ricostruiscono le azioni militari e diplomatiche da parte del Re di Napoli Gioacchino Murat e delle potenze coinvolte nella definizione dell’Europa post-napoleonica, specie per quanto concerne la riacquisizione delle Marche da parte dello Stato della Chiesa. Due capitoli sono dedicati agli armamenti e alla medicina di guerra nella prima metà del XIX secolo.



Anticipiamo qui il prologo "1815, l'unificazione impossibile":

Se si dovesse considerare l’unificazione italiana solo come frutto di guerre fortunate e di abile diplomazia, si potrebbe pensare a un processo breve durato dall’aprile 1859 al novembre 1860. Quindi si potrebbero supporre realizzabili l’unità e l’indipendenza italiana nel 1815 quando Gioacchino Murat lanciò la sua Campagna d’Italia nel tentativo di conservare il trono e ampliare i suoi domini all’intera Penisola oppure a una vasta parte di essa.

In realtà il processo per l’unità e l’indipendenza non fu né semplice, né rapido, bensì lungo e complesso. Anzi la rinascita nazionale fu ulteriormente complicata e il percorso contorto dato che si scontrò con le situazioni interne e internazionali.

Non ci volevano solo idee, ma anche la loro diffusione tra la popolazione all’interno di un quadro europeo che ne consentisse la realizzazione. Condizioni esistenti dopo la metà del XIX secolo, iniziate con la rivoluzione dei popoli del 1848-49 e consolidate con l’effettiva disgregazione del sistema di repressione e controllo delle potenze vincitrici su Napoleone instaurato ai tempi del Congresso di Vienna, ma non rintracciabili circa 45 anni prima.

Ai tempi del tentativo di unificazione e indipendenza che Murat intendeva compiere tra marzo e maggio 1815 mancava in primis uno spirito nazionale condiviso. Il Risorgimento, a dispetto di una vulgata localista e revisionista portata avanti da qualche decennio a Nord e a Sud con il tentativo di piegare la Storia a meschine finalità politiche contemporanee, fu la concretizzazione della passione per libertà e autodeterminazione di un popolo. Scriveva Hyppolyte Taine nel suo Viaggio in Italia del 1866: «Vi assicuro che qui in Italia la rivoluzione non è questione di razza ma di passioni e di idee. Essa è cominciata alla fine del secolo scorso (il XVIII), già in Beccaria con la diffusione della letteratura e della filosofia francesi e sono la classe media, le genti illuminate che, trascinandosi dietro il popolo, come già negli Stati Uniti durante la guerra d’indipendenza, che la diffondono. C’è una forza nuova, assai più potente delle antipatie provinciali, fino a un secolo fa del tutto sconosciuta, situata non nei nervi, nel sangue e nelle consuetudini, ma nella mente, nelle letture e nel ragionamento dalla grandezza spropositata (…) e vieppiù crescente (…). Gli Italiani non sono né livellatori né socialisti e non sono voltariani (…) costruiscono su una religione e una società ancora intatte (…)». La nazione come entità sociale e culturale in grado di sviluppare mentalità e forze tali da costituire uno Stato, lasciando in secondo piano le questioni dei confini e dell’economia. Il presente lavoro amplia e motiva i concetti espressi nel convegno di Tolentino del maggio 2022 al Castello della Rancia, e punta a evidenziare le ragioni che hanno provocato il crollo delle illusioni di Murat e dei (pochi al tempo) patrioti italiani di poter giungere alla creazione di un’Italia indipendente e unita. Motivazioni militari e diplomatiche del tutto diverse da ciò di cui avrebbero fatto tesoro il genio della politica Camillo Benso di Cavour e il trascinatore delle folle Giuseppe Garibaldi.

L’idea di nazione italiana cominciò a svilupparsi nella seconda metà del XVIII secolo prima di tutto nei circoli intellettuali e nel ceto borghese che esprimeva non una classe dirigente bensì funzionari amministrativi attenti alla tradizione letteraria e filosofica moderna più che alla riesumazione di modelli antichi. L’Italia dei campanili aveva una solida e accentuata tradizione di “particolarismo localista”, vivendo in uno spazio diviso tra diverse entità e dominatori fin dal VI secolo dell’Era Volgare. Venne alla luce una comune identità culturale da Dante a Boccaccio, da Guicciardini e Machiavelli che lentamente passò dagli intellettuali agli strati sociali più attenti e dinamici in antitesi ai poteri stranieri. Si trasformò presto in ribellione prima verso i francesi e poi verso gli austriaci. 

Sulla Rivoluzione francese e sulle istanze che Napoleone Bonaparte diffondeva nel periodo della sua ascesa al potere, non certamente quando si rese sovrano pari ai “despoti” che aveva condannato e voluto scalzare, ma ai quali si era adeguato, si gettarono le basi per istituzioni in grado di realizzare gli obiettivi di libertà, uguaglianza e fraternità, sia pure in modo molto meno turbolento di quanto accaduto dal 1789 in Francia. Quando si parla di uguaglianza si pensa soprattutto ai diritti civili e di fronte alla legge; quella sociale sarebbe stata ben lungi dall’essere progettata e raggiunta. Dapprima la ricerca era indirizzata verso il riconoscimento dei diritti fondamentali in una cornice di ordine, progresso e riforme per tradurre in pratica i concetti dell’Illuminismo. Il riformismo fu il primo passo che pure i singoli Stati italiani avevano più o meno cercato di effettuare grazie alla gradualità dei cambiamenti pensati da alcuni Sovrani e dalla cerchia intellettuale. Anche in quei tempi fu la dimensione internazionale a favorire la cauta trasformazione approfittando del periodo di pace e stabilità in cui vivevano tra il 1748 e il 1796 gli undici Stati che costituivano la complicata geopolitica italiana. A parte le tre repubbliche oligarchiche (Genova, Venezia e Lucca), due sole dinastie italiane erano al governo. Le altre erano o degli Asburgo o spagnole. Ignoravano i confini naturali e avevano uno sguardo diretto Oltralpe spesso con l’ambizione di succedere ai parenti negli Stati più grandi e popolosi del continente. L’Italia così frammentata non aveva alcun significato politico. Viveva su un policentrismo culturale per il quale si era napoletani, siciliani, veneti, toscani, lombardi ecc…, non certo italiani, se non in senso lato. In più l’Illuminismo rivestì un carattere marginale a Roma per via del Papato e nelle decadenti repubbliche di Genova e Venezia. Tutte queste piccole potenze regionali erano troppo deboli e incapaci di imporre il loro dominio, come si era visto nel XV-XVI secolo, ed erano diventate preda degli stranieri: Francia, Spagna e, in maniera più sfumata, Sacro Romano Impero. A questo tipo di declino politico si era aggiunto quello economico con la riduzione dei commerci, la perdita della centralità nel Mediterraneo, l’espansione del latifondo, la scarsa propensione all’industrializzazione da parte di un ceto nobiliare altamente “conservatore”, l’influenza frenante della Chiesa e la pressione fiscale dovuta ai dazi gravanti sugli scambi. 

Vi furono anche progressi, non solo demografici, per le aperture all’estero e per il recepimento delle idee di riforma giunte da un mondo che tendeva a diventare liberale e cosmopolita, ma anche rigide opposizioni per interessi particolari e personali a partire dal clero e dell’aristocrazia. Le masse, poco informate e non coinvolte, apparivano disinteressate e votate solo alla sopravvivenza, quasi infastidite all’ipotesi del cambiamento. La Rivoluzione francese e ciò che ne seguì non ridussero il potere della nobiltà, salvo far cadere qualche testa ma non in Italia. Ebbero l’effetto di incrementare l’espansione e il ruolo nella società della nascente borghesia. La dominazione francese subordinò economicamente l’Italia ai progetti e alle esigenze transalpine, intensificò il prelievo fiscale, obbligò i giovani a rischiare la vita sui campi di battaglia d’Europa per l’imperialismo napoleonico e arricchì un ceto di persone che fecero affari più o meno puliti, malversazioni comprese. Con il Blocco continentale, inoltre, tagliò fuori l’economia mediterranea dagli scambi di olio, grano e seta, malgrado l’arrivo di capitali e imprenditori stranieri. Il contraltare fu una duratura riforma amministrativa e legislativa diventata moderna ed efficiente pur nel quadro del rigido centralismo voluto dall’Imperatore.

La Francia disilluse le speranze di farsi trascinatrice del cambiamento dividendo l’Italia in tre entità statali, una inglobata a pieno titolo della Francia e le altre due vassalle, il Regno d’Italia di Eugenio Beauharnais, figliastro dell’Imperatore, e quello di Napoli affidato al cognato Gioacchino Murat. Restavano fuori dallo scacchiere napoleonico i Savoia di Sardegna e i Borboni di Sicilia. Dopo l’entusiasmo per le “repubbliche sorelle”, molte furono le delusioni perché ogni decisione sarebbe stata presa ancora una volta sopra le teste degli italiani. Sulle intenzioni di Napoleone relative all’assetto della Penisola regna tuttora l’ambiguità. Il generale Còrso aveva detto all’ambasciatore di Napoli in visita a Parigi: «Mai si potrà fare con lombardi e piemontesi, toscani e genovesi, napoletani e romani un sol popolo, tuttavia è una bella idea». Si distingueva dalla ben nota “espressione geografica” di Metternich solo perché quest’ultimo, diffidente, ne riteneva possibile la realizzazione esclusivamente mediante l’aborrita formula di una repubblica di cui era impaurito per il timore di contagi nell’Impero. L’esercizio del potere presupponeva infatti la libertà e la diretta partecipazione del popolo, prospettiva sgradita a entrambi. Si creò ugualmente una classe dirigente amministrativa e militare che l’Austria e gli Stati restaurati conservarono, sia pure mettendola su un piano subalterno alla direzione centralistica delle singole entità statali. 

In ogni caso la sequenza: riforme, rivoluzione, dominazione napoleonica, richiesta di diritti, liberò il patriottismo come rivendicazione dell’idea nazionale, o quanto meno come forma di orgoglio identitario. 

Gioacchino Murat doveva allora farsi paladino di uno Stato italiano unito, indipendente e dotato di una costituzione liberale. Non ci riuscì perché divenne inviso all’intellighenzia liberale spesso inserita nella Carboneria che lui stesso aveva prima incoraggiato e poi osteggiato e deluso. Ebbe scarso supporto della popolazione, specie al Nord, perché stanca, spossata da vent’anni di guerre e d’instabilità, venata di sentimento antifrancese, tale era percepito il cognato di Napoleone, più votata a seguire la Chiesa che gestiva e garantiva ciò che oggi chiameremmo il welfare nonché per i sentimenti religiosi presenti nella quasi totalità della popolazione.

Oltre alle ragioni citate, il mancato appoggio della Carboneria anche dopo il discusso proclama di Rimini e la promessa concessione di una costituzione a tempo abbondantemente scaduto sgretolò le illusioni di trovare un’opinione pubblica capace di supportarlo nella sua avanzata antiaustriaca. Le sue riforme efficientiste all’interno del reame napoletano restavano qualcosa di lontano, impalpabile. Eppure era stato proprio Filippo Buonarroti, padre della Carboneria, a prefigurare un’Italia unita e indipendente. Questa restava divisa tra organizzazioni filofrancesi e contrarie, tutte con l’obiettivo dell’indipendenza italiana, ma incapaci di trovare un’intesa sul come, quando, con chi e in quale modo. La stessa stanchezza della popolazione si avvertiva nell’ambito militare con i filofrancesi sconvolti dalla guerra che Murat aveva portato contro Eugenio Beauharnais, con il quale, forse, avrebbe potuto dividersi l’Italia. Ognuno andava per conto proprio, specie dopo che gli antifrancesi di Lombardia avevano visto frustrate le aspirazioni o verso uno Stato indipendente o per un’ampia autonomia nell’ambito di un impero asburgico venato di federalismo.

Tutto il processo politico nazionale era dominato dalle potenze straniere. Murat era solo, preda di suggestioni diverse e contrastanti, alla ricerca di appoggi che non trovava né con i proclami a seguirlo come campione dell’indipendenza e unità d’Italia, né con una politica verso i territori occupati da un esercito dissanguato dalla campagna di Russia e costretto ad affidarsi a ex galeotti, volontari e gente sostanzialmente impreparata che finirà per abbandonarlo sin dalle prime battute d’arresto.

Non costituiva un elemento di favore per il monarca di Napoli, oltre alla parentela con Napoleone, che lo aveva reso re, il ricordo della “furia francese”, saccheggio di ricchezze e opere d’arte, distruzione di monumenti, ateismo e anticlericalismo, tasse e imposte arbitrarie che avrebbero dato origine al Nord alle insorgenze sia dentro che fuori l’ex Repubblica Serenissima. Nel solo 1814 quasi centomila italiani vennero arruolati negli eserciti imperiali, ricorda Gilles Pécout nel suo “Il lungo Risorgimento”.  La misura era colma. Le delusioni inflitte ai patrioti italiani dalle strategie di Napoleone avevano indotto i cittadini, per lo meno quelli che s’interessavano di politica, a pensare al futuro dell’Italia con la consapevolezza che il suo destino sarebbe appartenuto solo a loro stessi, non affidabile a sedicenti liberatori, in realtà conquistatori, venuti da Francia, Austria o Inghilterra, autori di proclami in serie.

A differenza del periodo in cui fu effettivamente costruita l’unità nazionale, le grandi potenze, quelle che finalmente avevano domato Napoleone e si apprestavano a stabilire il nuovo assetto europeo nel segno della restaurazione imperiale e della legittimità dinastica, erano decise a sradicare qualsiasi forma di nazionalismo, inteso solo come affermazione di nazionalità, e di giacobinismo nel senso omnicomprensivo di liberalismo e democrazia. L’assetto generale d’Europa elaborato a Vienna prevedeva, nell’ambito di una relativa semplificazione del quadro geopolitico continentale, l’assoggettamento diretto o indiretto degli Stati italiani all’Austria di fronte al quale gli altri Paesi erano scarsamente interessati e i francesi troppo deboli per influire in modo sostanziale. Ai Grandi vincitori stavano molto di più a cuore gli interessi domestici di equilibrio e compattezza territoriale ai quali davano anche un presupposto ideologico fornito dalla legittimità. La Restaurazione imponeva il rientro dei sovrani, con la concessione al Papa del nucleo compatto dei suoi Stati, quindi senza enclave nella Penisola e in Francia. Talleyrand aveva detto chiaramente a Consalvi che i territori dello Stato della Chiesa sarebbero stati “regalati” al Pontefice e non restituiti, mentre Metternich riteneva che sul piano politico l’amministrazione del Papa fosse detestabile (incoraggiò Consalvi alle riforme) ma assolutamente da non indebolire nella prospettiva dell’utilità del collegamento “trono e altare”. Nel contempo, nel Lombardo-Veneto l’Austria contava di acquisire consenso non solo grazie alla pacificazione e all’ordine, ma anche al miglioramento di educazione, sanità e infrastrutture in modo da far intendere che le entrate fiscali erano ben spese. Tutto ciò non avrebbe fatto diminuire la progressiva evoluzione del senso patriottico essendo il suo dispotismo (scarsamente) illuminato contrassegnato da una stringente e oppressiva limitazione della libertà, fatta di controllo ferreo di polizia, censura e cappi burocratici allo scopo di stroncare sul nascere qualsiasi velleità di cambiamento, come dimostrò la pesante repressione di un movimento indipendentista strettamente elitario in Polesine e a Milano. Sarebbe stato lo stesso movimento che avrebbe dovuto prendere le redini dell’unità e indipendenza propugnate da Murat con il Proclama di Rimini. La chiusura mentale dell’imperatore Francesco, che non volle dare almeno avvio a uno “Zollverein” tra gli Stati italiani, alimentò l’ostilità verso quei nuovi “padroni” che, per amor di pace e tranquillità, sarebbero stati disposti ad accettare addirittura nelle Legazioni spesso preferendoli allo Stato della Chiesa.

Murat aveva tutti contro, anche in famiglia, ma in primo luogo lo desideravano detronizzato, magari ricco pensionato, le cancellerie europee in blocco. Per timore, precipitazione e illusione di potenza attuò manovre diplomatiche che lo facevano ritenere inaffidabile sia agli Alleati sia al cognato Napoleone. Si aggiunse la mancanza di strategia politica e militare di un esercito raffazzonato che, pur con qualche eccezione, non riusciva a scaldare cuori e animi né tra i reduci del Regno d’Italia né tra le popolazioni che venivano toccate dall’avanzata da Napoli fino al confine dei Po. Murat era prima di tutto un soldato, coraggioso, brillante, trascinatore, indomito, ma a tutte queste doti non accompagnava una visione politica e una strategia da uomo di Stato. Se Cavour aveva reso il suo Piemonte accogliente luogo d’asilo dei fuoriusciti e dei patrioti in generale, Murat non inalberò neppure il tricolore nazionale come fece più saggiamente lo sfortunato Carlo Alberto, trovatosi anch’egli a lottare entro condizioni internazionali non favorevoli. Murat diede solo l’impressione di una volontà di espansione dei suoi domini più che di una riunione virtuosa delle forze nazionali. Però alla fine degli anni Quaranta del XIX secolo ci si era già accorti che diritti e libertà si potevano conseguire esclusivamente rendendo l’Italia indipendente e più o meno unitaria, lasciando in dubbio la forma di governo, propendente alla monarchia.

Visione politica e capacità strategica che invece avrebbe avuto Cavour, il quale, in un quadro internazionale più stabile e ricettivo verso le istanze dei patrioti italiani, seppe porre il suo Piemonte alla testa del movimento unitario e indipendentista. Ricevette aiuto concreto, sia pure per breve tempo, da Napoleone III e la benevolenza politica dall’Inghilterra. Potè farlo perché, rispetto al francese Murat, aveva il vantaggio di un maggior tempo di preparazione e di una società italiana molto più ricettiva. Il movimento per l’unità e l’indipendenza era diventato più solido rispetto all’élite dei Carbonari che parlavano solo tra di loro in gran segreto operando spesso con finalità divergenti e confuse. A Macerata i cospiratori del 1817 avevano elaborato un assetto nazionale inizialmente privo dei napoletani perché ritenuti inaffidabili; in Polesine, prima cospirazione tentata nel Lombardo-Veneto, si brindò nel 1818 a Napoleone II Re di Roma, un francese, a capo di uno Stato con reggenza dell’austriaca Maria Luisa. La fondamentale conoscenza di scopi e prospettive del Risorgimento con il coinvolgimento dei giovani fu portata alla luce da Giuseppe Mazzini, il quale capì l’importanza di inculcare i valori della libertà e dell’indipendenza dallo straniero in ogni strato sociale per dare vita a un’aperta ribellione. 

Il presente percorso di studio e di divulgazione si snoda in parallelo tra l’azione militare e politica di Murat e quella diplomatica del Congresso di Vienna e del cardinale Consalvi con particolare riferimento alle Marche e al loro possesso. La seconda parte, invece, riguarda gli aspetti più propriamente tecnici delle battaglie della Campagna d’Italia, che va vista e letta nella sua interezza e non come somma di episodi a sé stanti: armi e sanità di guerra in un periodo concluso a Waterloo dopo 23 anni di sangue su quasi tutta l’Europa.

Murat non “sopravvisse” al fallimento della Campagna d’Italia iniziato a Occhiobello e culminato a Tolentino, mentre trionfò la visione restauratrice e conservatrice di Metternich, volta a consolidare gli imperi e a reprimere ogni idea rivoluzionaria. Murat non agì, come scriveva nel 2015 Luigi Mascilli Migliorini, «in contraddizione al disegno imperiale napoleonico, ma come un momento confuso, contraddittorio della sua dinamica storica». Di Murat restano le idealità del Proclama di Rimini, e il suo regno che «potrà apparire ai patrioti italiani come un eccellente calco sul quale provare a modellare di nuovo un’alleanza con la Francia napoleonica, sia pure dovendosi accontentare, questa volta, di un Napoleone minore»; del cancelliere austriaco risalta l’assetto pacificatore dato all’Europa post-Napoleonica, sia pure senza modificarne il discapito delle libertà e dei diritti dei popoli. Quest’ultima impostazione prevalse inizialmente; a gioco lungo vinsero lo spirito e la passione per l’Italia libera e unita. Entrambi ebbero grande influenza per almeno un secolo. Al primo non fu riconosciuto nulla, al secondo rimase appiccicata l’etichetta del bieco reazionario. Salvo diverse letture, più moderne, obiettive e meno “sanguigne”, possibili a duecento anni di distanza e alle quali abbiamo fatto in modo di attenerci.

(Maurizio Romanato, Alberto Burato)