Alla Mostra del cinema di Venezia due film lasciano il segno
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Besson e Lanthimos, per salvare la bellezza

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Besson e Lanthimos, per salvare la bellezza

Due film bastano a salvare la bellezza.
In questi giorni Venezia brulica di film, come al solito e più del solito con la Mostra del Cinema fino al 9 settembre.
È sempre così, la Biennale Cinema, al Lido e dintorni, propone un calendario ricchissimo, decine di proiezioni al giorno, film in Concorso, Fuori Concorso, Giornate degli Autori, Settimana Internazionale della Critica, non fiction, Biennale College, realtà virtuale. Impossibile seguire tutto a meno di sospendere qualunque altra dimensione del vivere (bello e improbabile).
Ma, al giro di boa del festival, so che ci sono almeno due film in grado di salvare la bellezza. Due film in concorso a Venezia 80 per il Leone d’Oro. Provo a raccontarli, provo a dire lo stupore (ancora esiste lo stupore) nel guardarli. Due film che per ragioni diversissime brillano di immagini nette, sincere, senza filtri e nella finzione narrativa non hanno pudore.

“Dogman” di Luc Besson, con lo straordinario Caleb Landry Jones (bisogna guardare i suoi movimenti, ascoltare la sua voce, scorrere i suoi travestimenti, i gesti, le azioni, per capire la sua bravura).
Si può raccontare qualunque storia, la differenza sta nel come. Si può mostrare qualunque cosa, la differenza sta sempre lì. Luc Besson regala un testo (è autore anche della sceneggiatura) e una messa in scena crudi, senza filtri e pieni di delicatezza, di gentilezza. Cerca e trova l’umanità nella disumanità, un gioco di parole scontato ma difficilissimo da realizzare senza cadere nella banalità, nel formalismo, nella stucchevolezza: tutte attività che nelle storie (scritte e visive) abbondano. Perciò, attraversare una narrazione che lascia a casa la politica della correttezza, il perbenismo sociale e culturale, i filtri edulcorati, e non dimentica la realtà (neanche per un momento), è un respiro a pieni polmoni, con le narici aperte, con gli occhi spalancati.

“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane.” (Alphonse de Lamartine). Così si apre “Dogman”, così tiene lo spettatore incollato allo schermo.
La storia di Doug (Douglas) supera l’immaginazione, supera la capacità delle persone di pensare al dolore, eppure nel mondo accadono miriadi di fatti al di là del dolore possibile. È il fulcro del film: molte volte agli esseri umani viene inflitto un dolore insopportabile, eppure lo attraversano. Quando arrivano dall’altro lato sono annientati e allo stesso tempo umani più di prima, creatori di vita e bellezza.

Doug è così. Non voglio raccontare la sua storia. La sua storia va guardata e respirata. Dirò solo che nella solitudine e nel dolore Doug si circonda di amore. È l’uomo dei cani perché sono i cani, a centinaia (un meraviglioso lavoro di Besson e Jones fatto con loro e durato un anno intero), a dare senso e calore alla sua vita; sono i cani a proteggerlo, a capirlo, a dialogare costantemente con lui.
Tutto quello che passa davanti ai nostri occhi è verosimile, è un misto di realtà e fantasia, ma è autentico. La storia che ha ispirato il regista è un fatto realmente accaduto in Francia (in quanti altri posti del mondo?): un bambino tenuto in gabbia dalla sua famiglia, cresciuto in gabbia.

Da questo fatto inumano Besson non si discosta, non lo edulcora, non lo corregge; parte da questo orrore e dà vita a una persona che nell’annientamento vive di bellezza.
“La sofferenza è uno stato che accomuna tutti noi e il solo antidoto per contrastarla è l’amore. La società non ti aiuterà, ma l’amore può aiutare a guarire. È l’amore della comunità di cani che Dogman ha fondato a fungere da guaritore e da catalizzatore. Dogman non sarebbe il film che è senza Caleb Landry Jones. Questo complesso personaggio aveva bisogno di qualcuno che potesse incarnarne le sfide, la tristezza, il desiderio, la forza, la complessità”. (Luc Besson).
Se qualcuno è tentato di vedere nella dicotomia sofferenza/amore una sinergia banale, si sbaglia. È sufficiente pulire lo sguardo e la bocca da tutte le retoriche per capirlo.

“Poor Things” di Yorgos Lanthimos ha un cast di grandi attori, su tutti Emma Stone (sì, lei soprattutto), Willem Dafoe e Mark Ruffalo.
Quando ho visto il film non credevo ai miei occhi. Un misto di euforia e sconcerto ha invaso la sala grande zeppa di pubblico per questa storia gotica, calata in una sorta di ottocento rivisitato da Lanthimos, in preda a personaggi straordinariamente deformi (le povere creature del titolo).
Povere è un eufemismo, in qualunque direzione si voglia andare.
A Londra, Godwin Baxter (evocativamente chiamato God) vive e lavora come docente di anatomia: la sua abitazione è una gigantesca casa di bambole, un tempio lezioso e apparentemente terribile. Con lui vive Bella: una figlia? una creatura povera? Il bello del viaggio che il regista mette sullo schermo è scoprirlo. Bella è una donna alla quale God ha impiantato il cervello di una neonata nel tentativo estremo di salvarla. La sua esistenza è una costante meravigliosa scoperta, è l’affaccio alla vita di una creatura che la fa a tutti. La fa al mondo gotico tardottocentesco nel quale vive, ma ci vuole poco a capire che la farebbe a tutti in pieno duemila.
Lanthimos racconta l’intelligenza delle donne. Emma Stone entra nei panni di Bella come in un vestitino di pura seta, perfetto alle spalle, al seno, ai fianchi; entra nell’anima delle donne e in quella degli uomini con il candore di una bimba e con la forza di una femmina. E mai, nemmeno per un momento si fa schiacciare dal peso del mondo, dal peso di un mondo declinato al maschile.
Non ce n’è per nessuno. Le mostruosità sperimentate da God (il personaggio deforme e umanissimo vestito da Willem Dafoe) sono la rappresentazione dell’assenza di ipocrisia, pudore, perbenismo.
In sala gli applausi sono stati una catarsi; sembravamo tutti animati dalla bellezza di Bella, dalla sua assenza di inibizioni: quella dei bambini e degli adulti (se nel crescere gli si risparmiano castrazioni).
Se più di tutte e tutti fossero le Bella a guardare e ad attraversare il mondo, forse l’umanità avrebbe una speranza di gioia che a me ora pare lontana. Se ci fosse più consapevolezza del corpo e dei pensieri (di donne e uomini indistintamente), forse saremmo più capaci di vivere.

Nella favola gotica di Lanthimos vincono i corpi e l’umanità senza trucchi, vince il cinema che usa i trucchi per mettere in scena sincerità.




"Poor things" di Yorgos Lanthimos