Emiliano Morreale, -L'ultima innocenza-, recensito da Elena Cardillo
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Emiliano Morreale: -L’ultima innocenza-

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Emiliano Morreale: -L’ultima innocenza-

Parlo di cinema parlando di un libro. Non un manuale o un saggio di teoria o storia e critica del cinema. Un romanzo, meglio, una serie di racconti uniti da esplorazioni geografiche e temporali nel cinema, attraversati dall’autore tra realtà e immaginazione.

“L’ultima innocenza” di Emiliano Morreale (Sellerio editore, 2023) sta al cinema come la periferia sta all’immaginario urbano più potente.

Com’è strano il dèmone della scrittura. Si arrampica tra le circonvoluzioni del cervello, sale, scende, devia, penetra negli spazi curvi e stretti. Crea legami difficili da prevedere, spesso difficili da controllare. Sarà per questo che il rapporto umano con la scrittura è un caleidoscopio di possibilità, anzi, un taumascopio, oggettino semplice e delizioso che mi sono trovata fra le mani di recente, a differenza del caleidoscopio è un cilindro senza vetrini colorati all’interno che, semplicemente per via di una lente, frammenta e ricompone la realtà che osserva, in immagini, le più varie. Chi pratica la scrittura scivola tra possibili destini, per cui di volta in volta affiorano storie avvincenti, scrupolose, cadenzate sulla via, senza però un periodare benevolo a sostenerle; altre volte la scrittura è felice, pensieri e parole abbondano e vanno armonici o stridenti, comunque meravigliosi, capaci di riempire e incantare, ma senza saper cucire una storia, neppure dopo tante letture, né a colpi di corsi di scrittura.

Poi, ogni tanto, la penna scorre su declivi e asperità, strofina gli occhi, li riempie e graffia con narrazioni di vita vissuta, esplorata, immaginata. Come per “L’ultima innocenza”.

Mi sono trovata davanti il volume all’improvviso. L’immagine di copertina è linfa per gli occhi: Jane Wyman e Rock Hudson nel film “Magnifica ossessione” di Douglas Sirk (1954).

Emiliano Morreale nella vita si muove dentro il cinema, tra festival, cineteche, sale, passioni per il Novecento, registi, un’attenzione per la dimensione collettiva della visione cinematografica; ha pubblicato saggi dedicati ad autori come Mario Soldati, a generi ed epoche; insegna alla Sapienza, scrive sul “Venerdì”. “L’ultima innocenza” è il suo approccio al racconto, una narrazione di cinema, vita e invenzione che ha fatto vincere all’autore il Premio Campiello Opera Prima 2023.

Sei viaggi diversi, uniti senza soluzione di continuità dal tempo e dalla geografia, incontrando una folla di uomini e donne immersi, sfiorati, contagiati, attratti e respinti dal cinema. A inanellare tutto è l’autore stesso: ogni storia è intrecciata a un presente, a esperienze apparentemente vissute ma, più probabilmente inventate. Lo dice lui stesso: “Il gioco di partenza di questo libro era semplice: libertà di invenzione nella parte in prima persona, con un narratore più o meno fittizio, e divieto di invenzione nelle biografie storiche”; e la “Nota dell’autore” prosegue con dettagli, riferimenti bibliografici e non solo, da assaporare tanto quanto i sei capitoli che la precedono.

Non è un movimento lineare dentro il cinema, piuttosto uno spostamento sopra una mappa per unire punti solo apparentemente lontani e portare alla luce figure storiche quasi trasparenti e un senso del vivere.

Questo aspetto a me pare il cuore della narrazione. L’autore va alla ricerca di registi, attori, attrici, personaggi sfaccettati all’inverosimile, quasi tutti vaghi nella memoria storica (in molti casi svaniti del tutto); con loro, da profondità inattese, emergono pezzi di cinema scomparsi, cancellati dal tempo e dall’incuria di documenti e pensieri ma, insieme alle schegge di cinema, compaiono frammenti di vita vera inaspettatamente intrecciati ad altri.


Senza seguire l’ordine del testo (a me pare che ogni territorio esplorato possa precedere o seguire gli altri senza scomporre il paesaggio), pesco alcune storie.
C’è quella dura e bellissima di Douglas Sirk, in patria Detlef Sierck, nato ad Amburgo e approdato in America dopo il trionfo del nazionalsocialismo in Germania. In patria lascia un figlio, Klaus, reclutato come attore bambino, bellissimo, dai tratti puri, per diventare il volto della gioventù hitleriana sullo schermo. Un figlio perduto (con il divieto di avvicinarsi a lui), del quale non saprà più nulla: Klaus andrà a combattere sul fronte orientale, per morire nel 1944 in Ucraina a 19 anni.
Negli Stati Uniti Detlef diventa Douglas Sirk, ed è così che lo conosciamo, per film meravigliosi come “Magnifica ossessione” (1954), “Come le foglie al vento” (1956), “Lo specchio della vita” (1959). Il dolore di vivere che trasuda dal technicolor hollywoodiano del regista, si specchia oltreoceano.
A Sierck si contrappone e mescola Veit Harlan, regista e nazista convinto, sostenuto da Goebbels e autore di uno dei film antisemiti più brutali della storia, “Süss l'ebreo” (1940), per il quale Harlan (unico caso di un regista) fu processato per crimini contro l’umanità, due volte, sempre assolto. Anche lui aveva un figlio, Thomas, che in una sorta di contrappasso della vita e della storia, è vissuto a lungo (fino al 2010), è diventato scrittore, cineasta, di sinistra, ha passato gran parte dell’esistenza a dare la caccia ai criminali nazisti, ha incrociato Gian Giacomo Feltrinelli che avrebbe dovuto pubblicare la fitta trama delle sue ricerche; il libro non uscì, ma le migliaia di pagine sono emerse dall’archivio dell’editore.

Tra incroci e coincidenze c’è la rocambolesca e nebulosa vita di Dorothy Gibson, nata in New Jersey, diventata brevemente diva del muto, poi cantante, viaggiatrice in Europa e, di ritorno, sul Titanic (salita sulla prima scialuppa che prese il largo verso la salvezza); rimbalzata negli anni ’40 tra Italia, SS tedesche e Svizzera come presunta spia, si imbatte in un giovane giornalista di nome Indro Montanelli. Morreale va alla ricerca di un personaggio che sembra uscire da una sceneggiatura e invece luccica in una realtà discordante, quasi che a cercare Dorothy il narratore cerchi pezzi di sé.
Alla periferia di Palermo, invece, negli anni ’80 baluginava il Cinema Lubitsch, votato all’essai, caparbiamente poco frequentato. Un osservatorio magico poggiato sul nulla, dal quale partono racconti tra finzione, memoria e cronaca: come fu che Giuseppe Greco, figlio del super boss della mafia Michele, diventò regista di film di quart’ordine finanziati dal padre; e come Giuseppe finì in carcere coinvolto confusamente nel maxiprocesso del padre. Nel racconto di una passione non ricambiata (quella di Giuseppe per il cinema), spuntano i volti di mille figure tra film, mafia e politica.
“Anna” di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, nel 1975 è stato un caso di cinema sperimentale come pochi, eppure quasi dimenticato. È il pedinamento di Anna, adolescente sbandata, drogata, incinta, disperata. Sarchielli la incontra per caso, la ospita a casa sua, poi chiama Grifi per iniziare a riprendere la vita di Anna. Intorno a lei nasce un film realizzato con una delle prime macchine portatili per registrare su nastro magnetico (poi verrà riversato su 16mm), presentato al cineclub romano Filmstudio e alla Biennale di Venezia. Oltre alla forte eco e all’impatto sul pubblico, il film è diventato, per chi l’ha realizzato e ha conosciuto Anna, un’esperienza di vita e l’unico modo per capirla.

Infine, esito sul viaggio prezioso dell’autore nel cinema porno, nato dall’incontro fortuito (o forse no) con F., il più grande studioso di cinema pornografico italiano, coautore di una corposa pubblicazione sull’argomento (“Luce rossa” di Franco Grattarola e Andrea Napoli, ed. Iacobelli, 2014), recensita da Morreale. Nella tranquillità della casa di F. emerge un mondo straripante di volumi, ritagli, immagini, un immenso archivio che smuove l’immaginario e la percezione di un universo cinematografico ai margini, eppure pulsante.

Ecco, forse questa alla fine è la sensazione più forte tra le pagine di “L’ultima innocenza”: l’affiorare, da ogni storia raccontata, di un mondo visivo e narrativo sostanzioso, alla periferia di tutto, eppure essenziale al vivere.

“Mi tornò in mente con evidenza nuova cos’era allora, per un bambino, il luogo chiamato cinema. Al mio paese c’erano, quarant’anni fa, cinque sale, e tre di esse erano a luci rosse. I loro manifesti addobbavano angoli scelti, la piazza con la chiesa, i luoghi più importanti dei due corsi principali, con scene e titoli oltre l’immaginazione. Certo, noi bambini ci portavano negli altri cinema. Ma mentre i genitori ci tenevano per mano verso l’entrata nell’ora in cui i contadini in motoape tornavano dalle campagne, fissavamo i manifesti dei porno. Per migliaia di bambini quei titoli e quelle immagini, di donne gementi a gambe spalancate, era come se ci fossero sempre stati. Nessuno pareva vederli a parte noi, ma sprigionavano abbacinanti la loro potenza da angoli di periferie o di province dove i cinema si accingevano a chiudere per sempre, diventando presagio di qualcosa che ci aspettava e ci minacciava. Che il sesso fosse quello e nient’altro, nessuno ne dubitava. (E in molti non saremmo riusciti a dubitarne mai). Che fosse quello, in fondo, il cinema, non ci avevo ancora pensato.” (pagg. 156-157).