“Lagunaria” tra acqua terra e mito
Vai al contenuto della pagina

“Lagunaria” tra acqua terra e mito

Sottotitolo non presente

Leggi l'articolo

“Lagunaria” tra acqua terra e mito

Prendo spunto da un film uscito nelle settimane scorse. Ha gironzolato, dopo essere stato evento a Venezia, attirando in pochi giorni l’attenzione del pubblico e degli esercenti. In un pugno di date ha raggiunto un numero di spettatori con cifre a tre zeri e ha iniziato a rimpallare tra le sale. Prendo spunto da “Lagunaria” del regista veneziano Giovanni Pellegrini per attraversare con occhi e pensieri la città galleggiante.
Lo sguardo del regista è puntato su Venezia e sulla laguna; tra i suoi titoli recenti ci sono il corto “Regata rossa” (2021), nato da un progetto di arte pubblica curato da Melissa McGill (autrice delle coreografie veliche per una regata che ha attraversato la laguna e Venezia), e il documentario “La città delle sirene” (2020), realizzato dopo l’acqua granda che ha sommerso la città nel 2019 (187 cm sopra il livello del medio mare, superati solo nel 1966 con 194 cm).
Giovanni Pellegrini, classe 1981, è diplomato in regia documentaria; con Chiara Andrich e Andrea Mura (come lui formati al Centro Sperimentale di Cinematografia, sede di Palermo) nel 2018 ha fondato la Ginko Film. Oltre a questo, ha studiato Storia della navigazione all’Università Ca’ Foscari ed è stato guida naturalistica nella laguna di Venezia.
Dunque, il centro della sua attenzione è quel luogo in equilibrio perenne tra terra e mare, secche e mareggiate, realtà e sogno.

Mi piace riflettere su questa complessità fluttuante, sabbiosa, melmosa, salata e dolce, gocciolante e vaporosa, attaccata al continente da invisibili fili subacquei, a tratti svelati dalle secche, fatta di paesaggi stridenti, densa di pietra e umanità, di acquitrini e dune serpeggianti, di isole laboriose, altre abbandonate, altre ancora pensose; un arcipelago sospeso tra ingegno e solitudine, industria e arte.
Mi sono chiesta perché un documentario come “Lagunaria” (uno dei tanti sguardi lasciati su Venezia) abbia colpito gli abitanti o frequentatori o avventori della città, e oltre; perché un evento del territorio si sia trasformato in circostanza durevole al cinema.
Ha una certa accuratezza formale e il regista si muove tra i canali del centro storico e le lingue più periferiche dell’arcipelago con la confidenza di chi ci è nato, cresciuto e cerca di ricomporre un mosaico. Lo fa mescolando realtà e trasfigurazione, materia e immaginazione.
Forse è questo il punto. Chi sta abitualmente a Venezia (residenti, studenti, lavoratori) non può evitare le contraddizioni di una città che è una continua metonimia del vivere, un costante slittamento di significato, capace di trasferire su ogni pietra, riva, canale, affioramento, sprofondamento, tutti i gesti possibili, tutte le identificazioni dell’esistenza.
Nel film una voce narrante parla di una fondazione perduta nel tempo e nello spazio e le immagini partono alla ricerca di tracce, reperti, archeologie, per ricostruire l’idea di una città e di una comunità.
È una ricerca simbolica che si muove nel paradosso delle immagini: la città in carne e ossa, le sue vite rutilanti, le sue lagune silenziose, l’orizzonte vago, i profili netti dei palazzi, l’umanità in perenne movimento, in perenne congestione.
Narrazione off e panoramiche restituiscono le contraddizioni di un luogo magico e orribile, poetico e disumano. Forse è questo il magnete, la seduzione: la consapevolezza che Venezia vive un’atmosfera asfittica, debellata neppure dalla pandemia, e anela corpi che la amino, mani che la prendano senza depredarla.

“Lagunaria” racconta un modo di guardare un luogo che va con le maree. Che è sempre andato con le maree. I flussi non dovrebbero essere liquidi anziché turistici? E gli scorci non dovrebbero essere ariosi, aperti allo sguardo, limpidi?

Senza entrare (ma un po’ sì) nelle riflessioni potenti e urgenti sulle masse indistinte di corpi che attraversano la città e la corolla lagunosa intorno; sulle questioni abitative (ci sono più b&b che case private nel centro storico, al punto che la proporzione è di decine di affittacamere per ogni casa residente); senza dar troppo conto del fatto che il museo a cielo aperto prospicente l’Adriatico avrebbe bisogno di politiche e azioni che affondino a piene mani nel senso, nella lentezza, nella saporazione dei particolari e non di un libero mercato della cristalleria; senza sprofondare molto su queste spine mai tolte dai fianchi di Venezia, lo slittamento di significato, la metonimia e ad un tempo l’ossimoro della città, è continuare a credere che porti addosso accezioni infinite; continuare ad oscillare tra l’idea di un dio del mare che vuole possederla e lei, le sue pietre, i suoi acquitrini che, sfiancati dalla violenza, vogliono liberarla. Significa stringerla nell’illusione, vederla sparire, sepolta dal suo stesso esistere.
Il film ancora gironzola tra le sale, poi forse spunterà tra i giardini estivi illuminati da schermi stesi sotto notti stellate.