“L’ultima via di Riccardo Bee”. Estremo e solitario
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L'ultima via di Riccardo Bee

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L'ultima via di Riccardo Bee

A volte, anzi spesso, il documentario è più avvincente di un film di finzione. Proprio come tra i libri il saggio è più coinvolgente di un romanzo.
Capita con “L’ultima via di Riccardo Bee”, un documentario autoprodotto e diretto da Emanuele Confortin, giornalista, documentarista e alpinista di Castelfranco Veneto, vincitore del Premio del Pubblico come miglior film di alpinismo al Trento Film Festival 2023.
Ci sono voluti tre anni al regista per realizzarlo, arrampicato sul Monte Agner, tra la valle di San Lucano e la valle Sarzana, nel bellunese. Lì, precisamente a Lamon, nel 1947 è nato Riccardo Bee, uno degli alpinisti estremi più forti e defilati nella storia dell’alpinismo italiano e non solo.
Una vita breve la sua, interrotta il 26 dicembre 1982 cadendo dalla parete nord dell’Agner, dove lo scalatore cercava di aprire una nuova via di salita alla cima.

Il lavoro di Emanuele Confortin ha il sapore del vero documentario; quello che osserva la realtà senza pregiudizi, senza confini troppo stretti sull’oggetto (persone, luoghi, esperienze) dell’osservazione. Penso a tanto documentarismo etnografico, antropologico, culturale, nato in tempi lontani come ricerca profonda della realtà; con la consapevolezza che il mondo e le persone non hanno direzioni uniche; osservarli e raccontarli significa soprattutto lasciarsi sorprendere, lasciare alla realtà il diritto di mostrarsi.
Cercando la figura di Riccardo Bee, Emanuele è riuscito ad accendere un occhio potente e discreto, è riuscito ad entrare nel mondo dello scalatore, della famiglia e della comunità intorno a lui senza invadere lo spazio, alterarlo o filtrarlo.
Non è scontato osservare con la macchina da presa, narrare quello che l’obiettivo coglie, senza forzare la direzione. È questo a mio avviso il vero documentario.
La scelta del regista, cioè cercare la figura di Riccardo Bee lasciando emergere ad un tempo l’uomo sfaccettato e l’alpinista estremo, restituisce una narrazione densamente reale.
Dal film spuntano diversi piani, tasselli più o meno delineati che insieme ricompongono una buona parte di questo temerario e defilato alpinista. Non ha mai urlato le sue imprese, non ha esibito le tante conquiste sparpagliate tra i picchi delle Dolomiti. Tutti mastodonti (il Piz Serauta della Marmolada, le pareti della Schiara, le Pale di San Lucano, e altri) ma il più mastodonte è il Monte Agner.

Un vero colosso l’Agner. Fa parte del gruppo Pale di San Martino, non è tra le cime più alte delle Dolomiti e delle Alpi in generale, ma tocca i 2.872 metri sopra il livello del mare, e soprattutto la sua parete nord si alza ininterrottamente per 1.500 metri, sale liscia senza soluzione di continuità, dando a questo monte una caratteristica unica tra le cime alpine.

La storia di Riccardo Bee è aderente al monte, al suo colpo d’occhio vertiginoso. Ma è soprattutto la storia di un uomo che non poteva fare a meno di salire. Sta, insieme a tanti scalatori avventurosi e rivoluzionari, tra le figure che scivolano nel silenzio e nella solitudine.
Non è per la breve e intensissima vita in salita, durata solo 35 anni, ma è per aver cercato le sfide come conoscenza di sé e del mondo. Nel pugno di anni vissuti, Bee ha scalato le Dolomiti in cordate con molti compagni di salita, tra tutti Franco Miotto, amico e grande scalatore. Ma ha soprattutto cercato le salite in solitaria. Quella era la sua dimensione, lo spazio fisico e temporale nel quale il corpo e i pensieri di Riccardo trovavano respiro.
Per capire la forma umana ed estrema di Riccardo Bee è essenziale la sua famiglia: la compagna Carla De Bernard, le due figlie Federica e Valentina (la prima aveva otto anni quando il papà è precipitato dall’Agner, la seconda era nella pancia di Carla da sette mesi) e i due fratelli di Riccardo, Gianni e Adriano.

Emanuele Confortin racconta l’alpinista cercando l’uomo, senza mitologie, senza idealizzazioni.
Riccardo era giocoso, sognatore, desideroso ad un tempo di comunità e di solitudine. Osava, sfidava, preoccupava chi stava intorno, tornava sempre.

C’è una tensione continua nella nostra umanità. Un bisogno di baie tranquille e mari aperti. Ogni vita esprime questa tensione in modo diverso e ogni vita in questo è inarrestabile. Carla lo sapeva e, col senno di poi, lo sanno Federica e Valentina.
La macchina da presa arriva su ogni cosa piano piano, si appoggia a racconti, ricordi, sensazioni. Le immagini sono filtrate dal tempo e forse in questo si insinua un venticello che spinge in su la figura di Riccardo. Ma è un refolo o più semplicemente sono la distanza e il tempo passati.

Quello che non è lontano è l’Agner. Il monte è lì, solido e liscio con il suo spigolo nord.
Ed è lì che, secondo me, il film si àncora alla realtà.
C’è una bellissima lunga sequenza finale che, più di tante altre cose, porta lo spettatore accanto alla vita di Riccardo Bee. Emanuele Confortin, accompagnato da Luca Vallata e Samuel Zeni, scalatori come lui, ripete la salita in cordata del Pilastro Bee, sulla parete nord a tuffo per 1.500 metri. Una cordata da affrontare a tappe dormendo una notte sui piccoli terrazzamenti rocciosi che di tanto in tanto la parete offre e che gli alpinisti utilizzano per riposare, ancorati alla roccia e al vuoto.
Il montaggio, bellissimo, alterna la salita di Emanuele nel 2022 alle immagini d’archivio di Riccardo in arrampicata fino in cima al Pilastro.
È attraverso questo linguaggio visivo, messo sullo schermo con maestria, che riconosco la tensione a cercare sé stessi aderendo alla natura, alla sua selvatichezza faticosa.

Note: “L’ultima via di Riccardo Bee” ha fatto tante uscite nelle sale del Triveneto, quasi sempre accompagnato dal regista Emanuele Confortin, un piacere ascoltarlo.
Altre date sono previste nelle prossime settimane. In particolare: il 30 giugno all’Arena Cinema all'Aperto di Padova; il 1° luglio al Rifugio Scarpa Gurekian; il 27 luglio a San Tomaso Agordino; il 4 agosto a Pordenone.