Rapito di Marco Bellocchio
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Marco Bellocchio e il caso Mortara

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Marco Bellocchio e il caso Mortara

Ho riflettuto un po’ di giorni prima di scrivere qualcosa su “Rapito” di Marco Bellocchio.
È un film molto bello e molto ben fatto. Fila per poco più di due ore lungo la linea che il regista si è dato per affrontare una cicatrice profonda e ben visibile nella storia italiana. Direi anzi, per il tema e la portata, nella storia mondiale.
Edgardo Mortara è un bambino ebreo nato nel 1851 e residente con la sua famiglia a Bologna, morto quasi novantenne a Liegi nel 1940. Per raccontare la sua storia Bellocchio si è liberamente ispirato al saggio “Il caso Mortara” di Daniele Scalise (Mondadori, 1997), giornalista e scrittore che si occupa soprattutto di antisemitismo e omofobia.

Ho dovuto raccogliere le idee per scriverne, non perché avessi dubbi sul film, ma per capire bene la profondità di questa storia che riguarda il rapimento del piccolo Edgardo su ordine di papa Pio IX, all’epoca a capo di uno Stato Pontificio di cui Bologna faceva parte.
All’attenzione di Pio IX arriva la circostanza secondo la quale il bambino, quando aveva neppure un anno, sarebbe stato battezzato da una domestica di religione cattolica, Anna Morisi, a servizio in casa Mortara.
Edgardo era febbricitante nella culla e lei, temendo per la sua vita e per la sua anima, gli somministra il battesimo bagnandolo con l’acqua di una brocca e recitando la formula di rito, “io ti battezzo nel nome…”.
I genitori e tutta la famiglia di Edgardo non ne sanno nulla, il piccolo supera l’influenza e Anna nel tempo chiacchiera, racconta, si vanta forse di questa iniziativa, finché la cosa arriva all’orecchio di Pier Gaetano Feletti, inquisitore di Bologna, che riferisce a Roma l’accaduto.
Pio IX è pontefice dal 1848 dentro una Chiesa che è uno Stato governato da un vero e proprio sovrano. Un sovrano che per tutto il suo regno ha lavorato per la salvezza del mondo cattolico contro ogni tipo di eresia, su tutte quella ebraica.
L’autorizzazione a procedere con le indagini arriva a Feletti senza esitazioni. Interrogatori, verbali, una cospicua somma di denaro alla Morisi, costruiscono le prove dell’accaduto.
Nella notte del 23 giugno 1858 le guardie pontificie entrano in casa Mortara ed esigono la consegna del bambino che, in quanto battezzato, è cattolico, e su ordine del papa deve crescere da cattolico. La famiglia è impotente, l’ordine del papa è l’ordine di un sovrano.

Edgardo ha sei anni.
Per stare all’essenziale, la storia ci dice senza ombra di dubbio che Edgardo Mortara verrà strappato alla famiglia, dalla quale non tornerà più; verrà trasferito a Roma nella Casa dei Catecumeni e lì cresciuto e educato; nel tempo diventerà pupillo di Pio IX, prenderà i voti e per tutto il suo sacerdozio e l’intera vita aspirerà alla conversione degli ebrei al cattolicesimo.

Cosa c’è nel mezzo a tutto questo, Marco Bellocchio lo racconta con lucidità, fluidità, inevitabilità.
Sono i motivi per cui trovo il film dolorosamente avvincente.
Il regista è a suo agio. Tra le mani ha una vicenda della storia d’Italia che si muove in un arco di tempo preciso e delicatissimo che comprende i duri e difficilissimi rapporti della chiesa di Roma con l’intera Europa, la progressiva liberazione dal giogo pontificio di città (Bologna compresa) e province, la faticosa strada verso l’unità d’Italia nel 1861, la successiva presa di Roma con la Breccia di Porta Pia nel 1870.
La storia di Edgardo Mortara si muove in questo scenario. Ma la vicenda di Edgardo è anche la storia del complesso rapporto tra la chiesa e gli ebrei. Si insinua nei meandri di una battaglia contro l’ebraismo, di un accanimento messo in luce nel film da una sequenza memorabile: la comunità ebraica di Roma al cospetto del papa a chiedere clemenza per Edgardo, prostrata a baciare i piedi del pontefice. Una scena che da sola spalanca riflessioni, mostra ingombri, scatena orribili presagi.
La storia di questo bambino è la storia di un papa profondamente intollerante, autoritario, ambizioso che nel film, per bocca di uno straordinario Paolo Pierobon, dichiara: “Dicono che sono reazionario, ma io sto fermo, è il mondo che si muove verso l’abisso”.
Un abisso temuto, paventato, che ha portato Pio IX a tremende azioni, tremende scelte, tremende intransigenze.
La decisione del pontefice ha ricadute politiche pesantissime: sul caso Mortara si smuovono contro il papa le nazioni d’Europa, figure politiche e intellettuali d’oltreoceano; il Regno di Sardegna, Cavour, Napoleone III in Francia, e via via una moltitudine di stati che chiedono a gran voce la restituzione di Edgardo alla sua famiglia. Ma la risposta è laconica: “non possumus”.
D’altra parte la guerra di Pio IX per moralizzare gli ebrei al cattolicesimo, e in generale per evitare all’umanità l’abisso, si cementa con il dogma sull’infallibilità del papa, scolpito durante il suo regno, con il Concilio Vaticano I nel 1870. Il concilio fu interrotto dalla presa di Roma, ma il dogma venne comunque decretato.
C’è molto su cui riflettere prendendo le mosse dal caso Mortara. Non solo sulla disumanità di un potere che sottrae per sempre un figlio ai genitori e ne plasma il carattere, la fede, la vita; ma sul peso storico e sulle responsabilità di un papa che nel 2000 (durante il pontificato di Giovanni Paolo II) viene dichiarato beato.

Alla vicenda storica, complessa e articolata, il regista intreccia la vicenda umana.
Qui, a mio avviso, prende forma il meglio della narrazione, il meglio di una storia che è soprattutto una sconfitta umana.
Bellocchio con limpidezza e delicatezza punta lo sguardo su Edgardo e sulla sua famiglia, e mette sullo schermo il lungo e inevitabile processo di trasformazione di un bambino di appena sei anni in un perfetto soldatino del papa.
Edgardo vive in una famiglia ebrea praticante, in una cultura profonda, in un mondo che gli appartiene. Strappato alla madre, al padre, a fratelli e sorelle, alla comunità, gli viene chiesto di rinunciare a tutto, di credere in un dogma che condanna e annulla ciò che fino a quel momento è stato. E lui, a sei anni, assorbe, impara, metabolizza, crede.
La sottile trama che porta all’allontanamento fisico e mentale di Edgardo dalla sua famiglia è messa in scena con sapienza. Bellocchio indugia spesso sul volto del bambino (il piccolo Enea Sala, bravissimo), con delicatezza, perfino nel dramma del distacco, nel dramma della perdita, nella consapevolezza che si tratta di una via senza uscita.
Anche se in sporadici e ben sorvegliati momenti Edgardo incontrerà i genitori, anche se per qualche istante l’infanzia prenderà il sopravvento, soprattutto davanti alla mamma e alla prossimità necessaria ad un bambino, sul suo volto prenderà forma il distacco.
Un distacco così centellinato, così profondo, da fare di lui il pupillo del papa, a difenderne le ragioni, a giustificare, a venerare, fino a sposare una causa di infallibilità che lo porterà (è storia) a voler battezzare sua madre sul letto di morte.
In quell’istante leggo nel film lo strazio di un bambino rapito agli affetti, alla vita e plasmato, trasfigurato: quando animato da pura convinzione e quasi liberato da tutti i pesi, vuole dare il rito di iniziazione alla madre, lei rifiuta dichiarando la sua appartenenza.
In quel momento si apre un baratro, non potrebbe essere diversamente. Il baratro della perdita, del dolore inflitto e mai sanato.
Ho l’impressione che dalla storia non si impari mai, che esista una perseveranza capace di avvitare l’umanità alle proprie tragedie.