Descrizione
Dopo “Adriòti” e “Sicutéra nun prinsìpio”, il completamento della trilogia. Il libro propone venti inediti ritratti di personaggi adriesi, oltre ad una carrellata di dieci momenti di vita quotidiana. Nel capitolo finale la descrizione di oltre cento arti e mestieri, alcuni scomparsi, altri ancora presenti nel centro storico di Adria, che partendo dagli anni ’30 arriva a fine ‘900, elencando quanti in questo periodo di tempo si sono prodigati nei lavori più diversi. Foto di copertina di Sabrina Degrandis.
"Che cos’è la nostalgia? In pochi anni, con “Adriòti”, “Sicutèra” e questo “Siora Adria”, Romano ha provato a spiegarcelo da un punto di vista privilegiato, dato che i suoi ricordi, e quelli di chi gli ha raccontato altre storie e personaggi, risalgono quasi ad un secolo fa, epoca in cui la nostra Adria era completamente diversa da com’è oggi, una delle tante cittadine del Veneto con tanta storia alle spalle, prima che la fine dell’agricoltura tradizionale e l’avvento dell’industrializzazione le trasformassero definitivamente, nel nome di uno sviluppo economico che, almeno da noi, non si è mai compiuto. Un’Adria di un altro tempo, quella dei nostri padri e dei nostri nonni, che non hanno conosciuto l’avvento delle tecnologie legate all’elettronica, rispetto alle quali i ragazzi di oggi sono considerati invece dei “nativi”. Un’Adria in cui la frenesia non apparteneva ancora alle giornate dei suoi abitanti e la fretta quasi mai caratterizzava le loro azioni. Un’Adria dal vivere lento, che assomigliava di più allo scorrere indolente del suo Canalbianco e vi si adattava nelle modalità di trascorrere le giornate. Questa è la nostra città come Romano ce la racconta, non descrivendo fatti storici, che pure si susseguivano, ma descrivendo persone che l’hanno abitata, piene di ricchezza interiore e bontà d’animo.
Ma questo è anche un libro che raccontando l’intensità di quelle vite guarda anche in faccia la morte. Trapassando due secoli da parte a parte, fa irrompere le voci e i rumori del “secolo breve” negli anni “zero” tanto vituperati che ci hanno lasciato un’eredità di guerre e di crisi finanziarie. Lo fa tramandando i volti di personaggi che non ci sono più, proponendo scene di vita che ancora ripetiamo, occupazioni lavorative che hanno nobilitato l’esistenza di tanti adriesi. Ma con pudore Romano si ferma, in questo suo ricordare, al secolo andato, a cui sa di appartenere più che a questo. Lo fa con rispetto e discrezione, descrivendo un mondo che forse, così compiutamente, non c’è mai stato davvero e che solo la dilatazione della memoria aiuta a far credere come i fatti narrati proprio così si siano svolti nella loro cronaca quotidiana.
Passeggiavamo con Romano nel nostro cimitero cittadino, in un afoso mezzogiorno d’agosto, e inevitabilmente i nostri occhi incontravano quelli dei tanti nostri concittadini lì sepolti: pur nel rispetto del luogo e dell’occasione che ci aveva portati lì (ritrovare la data di nascita di uno dei personaggi citati in “Siora Adria”) gli veniva naturale accostare ad ogni volto un fatto, una parentela, un colloquio quasi dimenticato, avvenuto chissà quanto tempo prima, eppure ancora vivo nella sua memoria. Quei brevi momenti trascorsi nella nostra “Spoon river” erano destinati a lasciare un ricordo indelebile in me, perché quei corridoi, quelle scale, quei portici, quelle lastre invecchiate dal tempo mai mi erano parse così vive, appartenenti ancora al nostro vissuto quotidiano. In una delle sue “cartoline”, Franco Arminio, uno scrittore del nostro sud, scrive: “Io sono uno di quelli che sulle lapidi hanno i baffi lunghi, arricciati alla fine. Non me lo ricordo neppure di cosa sono morto”. Oppure, in un’altra: “Sono morto alle sette del mattino. Un modo come un altro per cominciare la giornata”. Al cimitero ci andiamo per salutare i nostri parenti, gli amici che se ne sono andati, ma spesso camminiamo spediti fino alla nostra destinazione. Quel giorno no, c’erano sì i nostri parenti, ma facevano parte di una “collettività”. E ho ricordato quanto Steve Jobs aveva detto qualche mese prima ai giovani studenti di Stanford: “Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso non vogliono morire per andarci. E anche che la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno le è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la Morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della Vita. È l'agente di cambiamento della Vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo. Adesso il nuovo siete voi, ma un giorno non troppo lontano diventerete gradualmente il vecchio e sarete spazzati via”. Da quel giorno in poi, passare davanti al Cimitero, imboccare quel breve viale alberato, guardare quell’ingresso, camminare fra quei viali silenziosi, assume per me un altro significato.
Ma “Siora Adria” non è solo il ricordo di persone che non ci sono più. E’ anche descrizione di quadri d’insieme, quando ci ritroviamo in determinati ambienti a condividere degli acquisti o delle attese. Qui la nostalgia non c’entra, ma penso che Romano qui volesse interrompere la commozione, e farci sorridere un po’. E “Siora Adria” sta anche nelle arti e nei mestieri, i tanti ricordati nelle pagine finali, nel descriverli nominandone i protagonisti e legando così un secolo all’altro, nei nomi di chi ha avviato e ancora conduce attività artigianali e commerciali. Anche questo un esercizio di memoria, confortato dalla consultazione di volumi impolverati, pubblicazioni periodiche, giornali quotidiani. E’ la pubblicità, in molti casi, la cartina di tornasole di una presenza vitale nel territorio, quella descrittiva degli anni sessanta-settanta, quella sintetica, dopo l’avvento del “logo aziendale”, degli ultimi decenni. Ma anche qui c’è, se vogliamo, indagine sociologica, o tutt’al più grafica, nostalgia no.
La nostalgia è tutta in quei venti personaggi (che potrebbero essere dieci o cento, non importa), in quei ritratti che ci restituiscono un tempo e un ambiente che stiamo dimenticando. Non accade se Adria decidiamo di percorrerla pigramente la sera, non importa se d’estate o d’inverno, se a piedi o in bicicletta, lungo via Corridoni verso Canareggio, o nel quartiere di Carbonara e poi verso l’Artessura, o in Borgo Dolomiti, tra case vecchie e nuove. Accade invece in fretta se usiamo l’automobile, se in preda alle nostre preoccupazioni non guardiamo, se già proiettati alla nostra destinazione non spostiamo lo sguardo, rinunciando qualche volta all’incanto di un tramonto. Succede ovunque nel mondo valga la pena di soffermarsi, succede qui perché l’originalità di Adria non è fantasia, è storia millenaria che abbiamo racchiusa nel cuore e vogliamo vivere ogni giorno, riannodando i fili di un sentimento che non accenna a sciogliersi". Paolo Spinello